A tu per tu con il noto cantautore napoletano, attualmente impegnato con il suo “W chi non conta niente Tour“
Ci sono artisti che non solo superano la prova del tempo, bensì ne stravolgono le regole, scardinando un sistema sia dall’interno che dall’esterno. Eugenio Bennato ne rappresenta un ottimo esempio, grazie ad un impegno musicale volto a valorizzare e tramandare la musica popolare dai vecchi Maestri alle nuove generazioni. Un ponte che lo ha portato a fondare la Nuova Compagnia di Canto Popolare, i Musica Nova e il movimento Taranta Power. Alla vigilia della data di chiusura del tour invernale “W chi non conta niente“, in scena al “Trianon Viviani – teatro della canzone napoletana“ di Napoli il prossimo 30 aprile, abbiamo incontrato l’artista partenopeo per approfondire la sua ispirata visione di vita e di musica.
Ciao Eugenio, benvenuto. Partiamo da un titolo: “W chi non conta niente”, che da il nome ad una tua bella canzone, oltre che al tuo ultimo tour. Uno slogan estremo quanto sintetico, da cosa è stato ispirato?
«L’ispirazione, dello scrivere un testo o una melodia, è un attimo… a volte anche indecifrabile. “W chi non conta niente” è una frase che avevo espresso, non esplicitamente, quando iniziai a fare musica, quando a vent’anni ebbi il coraggio di fondare un gruppo che si chiamava Nuova Compagnia di Canto Popolare. Erano i primi anni ’70, personalmente amavo in modo particolare il rock, si erano appena sciolti i Beatles, c’erano Bob Dylan e Joan Baez. Sebbene fossi a conoscenza delle tecniche di quella musica, in quel momento ero altrettanto attratto dalle sonorità popolari, sconosciute alle nuove generazioni. Vecchi Maestri che bisognava andare a cercare nelle campagne, per convincerli a trasmetterci la loro arte. Venivano fuori delle cose straordinarie, legate a degli strumenti anch’essi sconosciuti come la chitarra battente, la tammorra o il tamburello. Erano un po’ considerati i diseredati della musica, figure che all’epoca contavano poco. Grazie a questi Maestri della grande musica del Sud, abbiamo dato vita ad un vero e proprio movimento culturale, prima che i loro insegnamenti andassero perduti per sempre».
In attesa della tournée estiva e delle date all’estero, la parte invernale del tuo “W chi non conta niente Tour” vedrà la sua conclusione il prossimo 30 aprile, in una grande festa al Trianon Viviani, quella che consideriamo un po’ la casa della canzone popolare napoletana. Un cerchio che si chiude. Che tipo di spettacolo state allestendo?
«Quello del Trianon sarà un concerto speciale, che non si discosta molto da quello che realizzerò la settimana prima in Germania, per Radio Colonia, così come da quello andato in scena di recente allo Spirit de Milan. Un incontro rinnovato con questa generazione milanese che, di fatto, ha riscoperto la musica etnica. Questo è un fatto significativo, oltre che un risultato. Durante la serata del prossimo 30 aprile, presenterò per la prima volta dal vivo “Welcome to Napoli”, uno degli ultimi brani che ho scritto, un omaggio alle musiche del mondo che vengono accolte in questa città. Napoli ha una storia di apertura secolare agli input che arrivano dal Sud del mondo, in modo particolare dal Mediterraneo. Con tutti i suoi limiti e i suoi problemi, la capacità di Napoli è quella di essere una città storicamente pronta all’accoglienza».
“La musica come strumento per donare buone vibrazioni“, questa è una frase che mi disse una volta tua fratello Edoardo, ma che si adatta perfettamente anche al tuo percorso, al tuo impegno, sin dai tempi della Nuova Compagnia di Canto Popolare, dei Musica Nova, passando per il movimento Taranta Power. Quale pensi sia il filo conduttore che lega le produzioni da te realizzate in questi decenni?
«Percorrere le strade in cui possiamo ricercare la bellezza dell’arte, ammesso che si trovi. Quando fondai la compagnia, non fu certo per un’istanza intellettuale o per fare qualcosa di bizzarro, bensì per seguire un certo tipo di purezza artistico-musicale, la stessa che salverà il mondo, per collegarci al periodo drammatico che stiamo vivendo. Un elemento importante credo sia stato lo scrivere cose nuove. Sin da quando ho iniziato a frequentare la musica popolare, mi sono ben guardato dal fare del revival statico nel ripetere cose che già avevamo ascoltato. Ho sempre orientato il progetto utilizzando quello stesso linguaggio per dire cose nuove. Il filo conduttore, alla fine, è cercare di essere lontano dalle logiche commerciali, anche se questo alle volte ci costa qualcosa».
Una volontà di battere strade poco convenzionali, un sentimento che ti ha portato a volte anche a scardinare un certo sistema dall’interno. Mi ricollego alla tua partecipazione a Sanremo 2008 con “Grande sud”, un brano che tutt’ora possiede il primato di pezzo cantato nel maggior numero di lingue (l’italiano, il napoletano il dialetto di Carpino, lo swahili, il malgascio e l’arabo) nella storia della kermesse. Cosa ricordi di quell’esperienza? Un episodio che, personalmente, ritengo un bellissimo esperimento multiculturale in quello che possiamo considerare il tempio del nazionalpopolare…
«Ricordo l’influenza che a volte hanno le persone più esperte, da parte di un personaggio che fino a quel momento guardavo con circospezione: Pippo Baudo. Fu lui a chiamarmi personalmente, mi chiese di scrivere una canzone per l’ultimo Festival che avrebbe gestito. Io, coerentemente alle mie prevenzioni, gli dissi: “Pippo ma stai scherzando?”, ma lui non scherzava affatto, così insistette. A quel punto mi convinsi che fosse giusto trasgredire le mie convinzioni. Pensai che potesse rappresentare l’occasione per farmi conoscere anche ai genitori di tutti quei ragazzi che, in quegli anni, seguivano i progetti legati al mondo Taranta Power. Così scrissi “Grande sud”, un omaggio a tutti i luoghi che, ancora oggi, vengono considerati il Sud del mondo».
Tra l’altro era la prima volta che calcavi il palco dell’Ariston, perché tecnicamente la volta precedente, mi riferisco a Sanremo 1990, la rassegna andava in scena in quella struttura provvisoria che era il Pala Fiori, con questa grande orchestra e la platea immensa. Partecipavi in coppia con Tony Esposito, il brano era “Novecento Aufwiedersehen”. Ad un certo punto del testo cantavi: “E una musica diventerà”. Sarei curioso di chiederti quali erano le tue aspettative riguardo il nuovo millennio e in che termini sono state rispettate o stravolte nel tempo?
«Mancavano pochi mesi al 1990, era appena caduto il Muro di Berlino, mi resi conto in quel momento che si entrava nell’ultimo decennio del secolo, oltre che del millennio. Fu una sensazione strana, per una generazione come la mia che era nata con l’attesa del 2000. In “Novecento Aufwiedersehen” raccontavo del fascino di questo secolo, irripetibile sia nel bene che nel male, ricco di arte e di musica. Le aspettative erano quelle di andare verso un futuro che, forse, ci aspettavamo un po’ più tranquillo. Invece, sin dalle prime battute, capimmo subito che non sarebbe stato così. Mi riferisco al grande dramma planetario del crollo delle Torre Gemelle e la conseguente esplosione di un’assurda guerra religiosa. In realtà, però, il fondo è stato toccato proprio quest’anno, quando tutta la poetica del pacifismo che ci ha accompagnato dalla metà del Novecento e per il primo ventennio del Duemila è improvvisamente crollata con le squallide, terribili e scandalose cronache di una guerra fra paesi liberi. Siamo piombati in un silenzio che ha messo a tacere tutto ciò che in passato è stato scritto e detto da Joan Baez, Bob Dylan e, qui da noi, da Fabrizio De Andrè. Credevamo in quei valori pacifisti e pensavamo che fossero acquisiti, in realtà devo notare con dolore come molta gente alla guerra ci crede ancora».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica fino ad oggi?
«La coesistenza tra culture diverse. La musica, ma io direi l’arte in generale, ha questa capacità. Nella nostra follia e nel nostro essere a volte sopra le righe, il compito di noi musicisti è quello di trasmettere buone vibrazioni, proprio come dice Edoardo. In una canzone possiamo esprimere concetti che in dibattiti culturali e politici, generalmente, portano soltanto a liti e discussioni sterili. La musica porta a qualcosa di diverso, per questo la considero ancora oggi il maggior veicolo di affratellamento di popoli».
Nico Donvito
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