Recensione de “La mia voce“, terzo estratto dall’omonimo EP di Fabrizio Moro pubblicato lo scorso febbraio
Il compito principale del cantautore è emozionare il proprio pubblico e spingerlo al tempo stesso alla riflessione. Lo sa bene Fabrizio Moro (a cui qui la nostra ultima intervista) che, in tutta la sua carriera, ha sempre alternato momenti strappalacrime ad altri di denuncia sociale. Una strada seguita anche nel suo ultimo EP “La mia voce” (di cui qui la nostra recensione), lanciato dalla partecipazione sanremese con l’intensa “Sei tu” e che ora vede come terzo estratto il brano che ha dato il titolo al progetto.
Un ritorno alla rabbia degli esordi |
Scelta decisamente atipica per l’estate, essendo “La mia voce” una proposta fuori da ogni logica commerciale. Un sound rock, ruvido, spigoloso, su cui si sviluppa un testo sfrontato, senza filtri, forse il più duro della carriera del cantautore romano. È un ritorno alla rabbia degli esordi e diventa emblema di un artista mai sceso a patti con nessuno. “Non temete, io non sono e non sarò quel che volete“, canta a voce spiegata nel ritornello. Una decisa dichiarazione d’intenti. Un invito al pubblico a seguire la sua stessa filosofia: bisogna essere quello che siamo, non quello che vogliono farci essere.
Il suo mestiere è, in questo senso, uno dei più a rischio: “Vuoi fare il cantautore? Saranno c**** amari. […] Sarai spolpato da un sistema che ci vuole schiavi“. Non può che esserne consapevole lui che, in passato, ha subito l’ostracismo dei media proprio per alcuni suoi testi. Eppure questo non l’ha mai cambiato: è sempre in continua lotta contro un sistema di omologazione, anche sapendo che può rimetterci in prima persone. Le sue parole sono una rivendicazione orgogliosa per aver saputo non cedere a compromessi. Perché non è giusto “contare prima di parlare” se sai esattamente cosa dire.
Pandemia e libertà |
Una canzone che è sicuramente figlia della pandemia e di tutta l’incertezza che si è portata dietro. Il lungo periodo senza concerti ha causato problemi di ispirazione a chi come Moro la trovava sul palco, e questa apatia emerge tutta nella prima strofa e in quel “non voglio credere […] che il tempo esiste solamente, sai, per invecchiare“. In quei momenti vedeva la sua vita quasi andare sprecata, è stato come perdere la sua musa ispiratrice.
E le difficoltà sono state acuite dal terrorismo mediatico subito (“Non voglio credere alla voce di un telegiornale“) e da una politica in cui il cantautore romano non ritrova più dignità. I politici diventano quindi “i coriandoli di questo assurdo carnevale” in una terza strofa in cui Moro sembra augurarsi una sollevazione popolare. “La barca sarò io a guidarla e non la mano di un padrone, che limita, che mi dirige“, canta con impeto aggiungendo che “il potere logora chi non ce l’ha, ma anche chi ne abusa senza onestà“.
Un grido di libertà, concetto da sempre centrale nella sua poetica, ancora più emblematico nel passo finale: “Sei un uomo libero, credici […]. Ci fanno credere che non puoi crederci“. Non si è mai liberi fino in fondo, perché comunque sempre ostaggi di decisioni altrui o di cause di forza maggiore.
Libertà non è poter dire la propria nascosti “dietro ad uno schermo“. Significa poter essere ascoltati dalle istituzioni, combattere per le proprie idee, ricorrere alla protesta se necessario. Tredici anni fa, ne “Il peggio è passato“, Moro cantava che “nessuno ha mai il coraggio di prendere il bastone e darlo in bocca a chi ci vende le illusioni“; oggi esaspera ancora di più il concetto dicendo “che il bastone non è grosso, ma entra bene nel c***“. Senza la forza di ribellarsi al sistema, si sarà sempre più costretti a subire. Un concetto espresso in una maniera magari non molto elegante, ma che risulta quanto mai esaustivo.
In conclusione |
C’è tanta carne al fuoco quindi in questo brano, in un quadro finale che sembra di totale disillusione. Il cantautore romano trova invece una soluzione per sopravvivere a questo periodo di precarietà, confusione e equilibri minati. “La mia voce è più forte dell’identità di un’epoca in cui abbiamo scelto di non viverci“, è la frase ripetuta due volte nelle battute finali. Un invito ad appoggiarsi sulla propria individualità quando non si può ottenere nulla dall’esterno. A trovare le risposte ai tanti punti interrogativi nella propria voce interiore. A non abbandonare mai i propri principi e a non essere più censori di sè stessi.
“La mia voce” risulta così come il perfetto manifesto di un uomo e artista coraggioso. Arriva dritto come pochi e ti sconvolge per la sua onestà. Non ha paura di risultare divisivo e vuole scuotere le coscienze, esercitare il dissenso, stimolare il pensiero contro la sottomissione psicologica.
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Nick Tara
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