A tu per tu con il cantautore romano, in uscita con il suo terzo progetto discografico intitolato “Belvedere“
A un anno e mezzo dalla nostra precedente chiacchierata, ritroviamo con piacere Marco Cantagalli, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Galeffi, in occasione della pubblicazione di “Belvedere“, in uscita per Capitol Records/Universal Music Italy a partire dallo scorso 20 maggio.
Ciao Marco, bentrovato. Partiamo da “Belvedere”, il tuo nuovo album fresco di uscita. Come si è svolto il processo creativo che ti ha portato alla nascita di queste dodici nuove canzoni?
«Credo che l’abbia ispirato innanzitutto questo stop forzato legato al lockdown, questa novità della pandemia che nessuno di noi aveva vissuto prima d’ora. Inizialmente c’è stata anche un po’ di adrenalina dettata alla novità, poi la depressione e l’insicurezza sul futuro. Tutto questo mi ha dato la forza per scrivere delle canzoni che invitano l’ascoltatore a guardare il bello. Proprio a questo si deve, infatti, la scelta del titolo».
Che poi questo belvedere non è altro che la rappresentazione di tutto ciò che ci è mancato… non a caso il singolo “Divano nostalgia” racconta proprio quello che abbiamo vissuto in questi due anni. Quali sono gli aspetti psicologici che più ti hanno ispirato questa riflessione?
«Sicuramente il divano del mio salone, piuttosto famoso tra i miei amici perché il salotto è l’unico spazio grande di casa mia. A parte questo, diciamo che il divano per un periodo è diventato la nostra casa. Questa nasce in realtà in modo esistenziale, tra le ultime che ho scritto tempo dopo il lockdown, ripensando a quello che avevo in precedenza vissuto con un pizzico di nostalgia».
A proposito dell’aspetto musicale, ma anche per quanto riguarda la sfera testuale, mi ha molto colpito l’arrangiamento di “Un sogno”. Ci racconti com’è nata l’idea di questo valzer?
«Ho scelto di aprire la tracklist con questa canzone, perché riassumeva al cento per cento un po’ tutto il disco, un album che se senti ad occhi chiusi è più bello che ad tocchi aperti. Questo, alla fine, è esattamente quello che volevo e “Un sogno” incarna questo concetto. Mi piace molto la musica francese, da sempre, solo che non avevo mai trovato una chiave per esprimermi anche in italiano. Ecco, in questo le tempistiche dilatate del lockdown sono venute in mio soccorso. Avendo più tempo a disposizione, mi sono messo a cercare di capire come trovare una maniera tutta mia».
Per concludere, vorrei fare una riflessione sul tuo percorso: “Scudetto”, “Settebello” e “Belvedere” sono i primi tre capitoli di questo tuo viaggio musicale. Qual è il tuo personale bilancio arrivato a questo punto del percorso?
«Bello perché la musica è diventata un mestiere, d’altra parte però sono una persona molto critica, ai limiti dell’ossessivo. Avverto moltissimo la responsabilità verso me stesso e verso chi mi ascolta, non prendo le cose alla leggera, sono abituato nella vita a vedere le cose con una certa prospettiva. Diciamo che se dai il massimo, da una parte è ovvio che sacrifichi molte cose della tua vita, dall’altra ti senti soddisfatto e completamente appagato».
© foto di Ilaria Ieie
Nico Donvito
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