A tu per tu con il cantautore napoletano, in uscita con il singolo “Buongiorno amore” tratto da “Io torno”
Cantautore, musicista e vocalità straordinaria, tutto questo e molto altro ancora è Gigi Finizio, artista partenopeo che non ha certo bisogno di presentazioni. “Buongiorno amore” è il titolo del singolo fresco di pubblicazione, tratto dal suo nuovo progetto discografico “Io torno – parte 1”, rilasciato lo scorso dicembre, in attesa del seconda capitolo che vedrà la luce il prossimo ottobre. Una carriera lunghissima iniziata in tenera età, numerosi e inquantificabili dischi pubblicati, tanta gavetta, collaborazioni prestigiose e ben tre partecipazioni al Festival di Sanremo, nel 1995 con “Lo specchio dei pensieri”, nel 1996 con “Solo lei” e nel 2006 con “Musica e speranza”, insieme ai Ragazzi di Scampia. Ripercorriamo con lui un po’ della sua storia.
Ciao Gigi, partiamo dal tuo nuovo singolo “Buongiorno amore”, che sapore ha per te?
«“Buongiorno amore” è un brano che esprime tutta la solarità, il momento positivo di un amore. Sai, sono consapevole che il mio pubblico di riferimento sia abituato ad ascoltare nelle mie canzoni sentimenti tristi, i rapporti che non se la passano benissimo, relazioni in crisi. Questa volta ho voluto lanciare un messaggio diverso, perché l’amore è fatto di tantissime sfaccettature, bisogna vederlo da varie angolature, in questo caso ho voluto raccontarlo con il sorriso».
Dopo aver cantato tante storie struggenti, com’è giusto che sia all’interno di un repertorio vasto come il tuo, in questo pezzo esalti l’amore in tutta la sua bellezza. E’ stato complicato oppure un processo piuttosto naturale?
«Sinceramente non ho trovato nessuna difficoltà a cantare un amore del genere, forse è anche una questione di maturità, di esperienza. Quel pizzico di saggezza in più e il modo di vedere la vita diversamente, sicuramente hanno contribuito favorendo questo genere di ispirazione. Ho sempre pensato che l’amore sia come la musica: un mare aperto, se lo guardiamo a senso unico sotto un solo profilo diventa tutto monotono, in più non ci rendiamo nemmeno conto della bellezza che si cela dietro la complessità di questo sentimento, che va osservato da più prospettive».
Cosa aggiungono le immagini del videoclip ufficiale diretto da Gaetano Morbioli?
«Il video vuole far capire al pubblico l’evoluzione che sto vivendo dentro di me, che definirei notevole. Da una parte c’è l’attrice protagonista che gira la sua scena, in maniera semplice e solare proprio come si evince dal testo, dall’altra parte c’è un mio momento live molto sentito e anche abbastanza rock. Ho voluto contrapporre la posività dell’amore con l’aggressività della musica, per dire a chi mi segue che Gigi Finizio è in fase di allestimento, di cambiamento continuo, lo è sempre stato nella sua vita, sia nell’amore che nella musica».
Torniamo indietro nel tempo ai tuoi esordi, partiamo dal rione San Lorenzo, dove sei nato e dove tutto è cominciato. Che ricordi hai di quel periodo?
«Tutto si è svolto in modo molto semplice e naturale, come accade spesso nei quartieri popolari. Nasco da una famiglia di operai, mio padre faceva l’autista di autobus e mia mamma era casalinga. La prima a mettermi in contatto con la musica è stata mia nonna, facendomi sfiorare per la prima volta con il mio ditino i tasti di un organo, da lì è cominciata questa magia, ho iniziato a studiare e a fare i miei primi spettacoli, in maniera spontanea, nulla è stato calcolato».
Hai inciso il tuo primo disco all’età di nove anni, oggi verresti definito un bambino prodigio, ci sono cose che senti di aver sacrificato?
«Mi rendo conto di aver sacrificato una parte significativa della mia infanzia, mi affacciavo alla finestra e vedevo gli altri miei compagni che giocavano a pallone, ma non rimpiango nulla, perché sono sempre stato affascinato dal pianoforte, uno strumento con il quale ho stabilito un rapporto molto intimo e personale. Mi ricordo che la mia prima rappresentazione l’ho fatta a sei anni, a nove ho pubblicato il mio primo album, forse sono stato un bambino prodigio anch’io, non saprei, ma tutto è arrivato in maniera naturale, senza sapere a cosa stessi andando incontro. Gli anni si sono susseguiti velocemente, è stata una successione di eventi e di incontri».
Onestamente parlando, ho sempre fatto fatica a trovare in un cantautore delle doti canore eccelse, l’esempio che calza a pennello è Mango, tra i pochi che mi vengono in mente cito anche te e Michele Zarrillo. Non è facile equilibrare e saper fare bene tutto, ognuno di noi nasce con una sua predisposizione, chi per la scrittura, chi per la composizione, chi per il canto. Oltre alle doti di scrittura e composizione, ci tengo a sottolineare la tua vocalità fuori dall’ordinario
«Parlare di me è sempre difficile, preferisco che lo facciano gli altri. Ti ringrazio per le tue bellissime parole. Se dovessi darti una risposta tecnica direi che hai ragione, è difficile trovare un cantautore che ha anche una voce qualitativamente gradevole e non soggetta al gusto personale, che riesce a trasmettere emozioni anche attraverso il suo timbro, come fa solitamente un interprete. Ogni artista sviluppa in qualche modo una sua peculiarità, riuscire a far tutto bene è praticamente impossibile. Mi hai citato Mango, lui è stato davvero un grandissimo, sotto tutti gli aspetti, dalla scrittura all’interpretazione. Solitamente non è così, da una parte c’è il Battisti della situazione, che ha composto delle cose incredibili, dall’altro una Mina, che potrebbe cantarti anche l’elenco telefonico, trovare queste caratteristiche in un’unica figura non è facile. Quello che posso dirti è che sento di aver ricevuto un dono, sia come musicista che come cantante, ogni giorno ringrazio il Signore per il regalo che mi ha fatto, cercherò sempre con tutta la modestia di portarlo avanti senza farlo mai contaminare da altri meccanismi, che evito di sottolineare perché conoscerai benissimo».
Nel 1995 debutti al Festival di Sanremo con “Lo specchio dei pensieri”, tra le Nuove Proposte nonostante ben diciotto album alle spalle. Questa cosa fa sorridere soprattutto se si pensa alla situazione odierna, bastano due singoli di successo, la partecipazione ad un talent e diventi automaticamente un big. Secondo te, si è un po’ perso il valore della gavetta?
«Assolutamente sì, la mia carriera è stata incentrata sulla gavetta, cosa che non accade spesso al giorno d’oggi, i talent show portano i ragazzi a bruciare inevitabilmente le tappe, a maturare velocemente il proprio talento senza accompagnarlo dall’esperienza, requisito fondamentale per durare nel tempo. Non ti nascondo che, paradossalmente, mi porto dietro il peso e la zavorra della gavetta, se per me ha rappresentato tantissimo ed è stata fondamentale, da molti addetti ai lavori è vista in maniera negativa, perché siamo entrati nell’ottica del successo facile, il sudore e il sacrifico non sono più apprezzati come un tempo. Chi ha il potere di decidere le sorti discografiche degli artisti dovrebbe tenere conto di questo e dare una possibilità, sia a me che a tanti altri, di permetterti di portare avanti la tua musica. Agli occhi degli altri, purtroppo, la gavetta ti etichetta ed è bruttissimo, soprattutto per chi ha dato tanto a questo mestiere, sempre con grande passione e rispetto».
L’anno successivo torni in gara con “Solo lei” e dieci anni dopo con “Musica e speranza” insieme ai Ragazzi di Scampia. Cosa ti ha lasciato il palco dell’Ariston?
«La mia presenza con i Ragazzi di Scampia, in realtà, non l’ho mai reputata una partecipazione al Festival di cantautore, bensì come interprete di un progetto sociale, ho dato voce ad una problematica che tuttora esiste nei quartieri periferici di Napoli, tra l’altro con un testo firmato da Mogol, su musica mia e di Gigi D’Alessio. Diciamo che la mia avventura con Sanremo è iniziata nel ’94, con “Scacco matto” vinsi Sanremo Giovani, una competizione che mi ha permesso di avere accesso al Festival vero e proprio, tra le Nuove Proposte nel ’95. In quegli anni c’erano delle regole ben precise, i primi tre classificati tra i giovani finivano direttamente l’anno successivo tra i big, la gara nella gara, pensa quanti esami ho dovuto passare nella mia vita (sorride, ndr). Classificandomi terzo con “Lo specchio dei pensieri” ebbi la possibilità di tornare nel ’96 a calcare il palco dell’Ariston con “Solo lei”, un’edizione che ricordo particolarmente perché c’era un grandissimo cast, c’erano tutti quell’anno, da Zarrillo a Giorgia, passando per Ron, Al Bano, Amedeo Minghi, Paola Turci, i Neri Per Caso e tantissimi altri. Sono fiero di aver preso parte a quella che reputo una delle più belle edizioni del Festival».
Negli anni hai collaborato con numerosi artisti, c’è un incontro in particolare che ti ha colpito sia dal punto di vista umano che artistico?
«Gli incontri per me fondamentali sono stati due, il primo con Claudio Baglioni avvenuto con l’invito ad esibirmi con lui a Lampedusa per una delle edizione del suo “O’ scià”, una manifestazione che metteva al centro dell’attenzione un disagio che viviamo ancora oggi. La musica, quando vuole, riesce a dare dei messaggi davvero importanti. Partecipare in quella circostanza è stato per me emotivamente molto forte, ho avuto il piacere di condividere con lui questo tipo di messaggio sociale e di scoprire una persona molto generosa, perché mi ha voluto ad esibirmi con lui per tutte le quattro serate, permettendomi di cantare la sua “Avrai”, dei miei pezzi e alcuni grandi classici napoletani come “Tu sì ‘na cosa grande”. Il secondo incontro, invece, è stato quello con Lucio Dalla, anche lui mi ha voluto al suo concertone alle isole Tremiti, trasmettendomi tutta la sua napolitanità che aveva nel sangue, proprio a Sorrento ha scritto uno dei suoi più grandi capolavori che hanno fatto il giro del mondo, mi riferisco ovviamente alla meravigliosa “Caruso”».
Quale significato attribuisci alla parola “artista”?
«L’artista può essere chiunque, ognuno di noi ha una propria predisposizione verso qualcosa, si nasce con un dono e l’arte va semplicemente coltivata. In qualsiasi tipo di ambito, l’artista è colui che mette al primo posto l’emozione, non svolge la sua attività in maniera meccanica, ci mette sempre il cuore. Personalmente questo mi è successo con il pianoforte, da piccolo nessuno mi aveva mai insegnato a leggere uno spartito, prima ancora di iscrivermi al Conservatorio non sapevo esattamente come si chiamassero gli accordi, suonavo senza pensarci, la disciplina è arrivata in un secondo momento, all’inizio mi sono lasciato trasportare dall’arte e dalla sua coinvolgente emozione».
Ti senti rappresentato dall’attuale mercato musicale? Cosa pensi del settore discografico di oggi?
«E’ una domanda molto bella, ma allo stesso tempo per me emotivamente forte. Oggi si punta tutto sul rap e sulla trap, generi che assolutamente non rinnego, perché da bravo musicista mi reputo sempre aperto a qualsiasi tipo di ascolto, per me anche se batti il pugno sul tavolo è musica, qualsiasi rumore, qualsiasi suono è una forma di comunicazione. Quello che posso dirti è che sto cercando con tutte le mie forze di trovare uno squarcio in questo mercato per cercare di affermare la mia musica e far capire ad un pubblico trasversale che non sono esclusivamente un artista napoletano e basta, la mia estrazione è partenopea e non la rinnego assolutamente, ma la mia attitudine è completa, a 360 gradi, mi identifico nei grandi classici della canzone napoletana ma anche in tutto ciò che è musica pop italiana, da sud a nord».
Lo scorso dicembre è uscito il primo capitolo del tuo nuovo progetto discografico intitolato “Io torno”, a cosa si deve la scelta di suddividerlo in due volumi?
«Era da un anno e mezzo che lavoravo al mio album, ce lo avevo praticamente pronto in fase di pre-produzione, con ben quattordici pezzi. A Siena ho incontrato per puro caso il Maestro Diego Calvetti, da lì abbiamo deciso di produrlo insieme ed è partito tutto. Ho rinunciato ad inserire dei pezzi miei perché mi piaceva l’idea di collaborare totalmente con lui, inserendo brani di entrambi. L’idea di suddividerlo in due step ci è venuta perché era in atto un’ulteriore evoluzione, una fase di passaggio tra il Finizio di ieri e quello di oggi, per cui siamo partiti con una prima parte un po’ più soft, diciamo pure di transizione, per poi completare il tutto con la seconda parte un pochino più spinta, che uscirà il prossimo ottobre».
Per concludere, qual è la lezione più grande che senti di aver appreso dalla musica in tutti questi anni di attività?
«La musica è stata per me il giusto traghetto per emozionare il pubblico e creare una sorta di filo diretto comunicativo, il collante tra me e il resto delle persone che mi circondano. La musica è tutto ciò che desidero, sin da quando ho nove anni, tendenzialmente ho sempre avuto un carattere molto introverso, attraverso l’arte ho superato ogni barriera e la mia innata timidezza. Ho imparato a non avere paura di nulla sia sopra che sotto il palco, questo mi ha insegnato la musica».
Nico Donvito
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