Dal sodalizio artistico con Irama agli altri progetti, approfondiamo la conoscenza del produttore milanese
Ciao Giulio, benvenuto su RecensiamoMusica. Partiamo dal principio ossia dal tuo personale “Big Bang musicale”, come ti sei avvicinato a questa forma d’arte?
«Ho iniziato a studiare musica all’età di cinque anni, perché la mia famiglia ha voluto offrirmi questa opportunità, ho suonato il pianoforte fino ai tredici anni, momento in cui ho cominciato ad imbracciare la chitarra. Dopo la Laurea in Economia mi sono iscritto al Conservatorio di Pescara, fondamentalmente per due motivi: sono per metà abruzzese e lì c’è un corso di Popolar Music molto bello. Dopo essermi specializzato in composizione e produzione, ho fatto un bel semestre in Germania a Mannheim, specializzandomi sulla musica elettronica».
Insomma, un curriculum di tutto rispetto, quanto è stato fondamentale per te lo studio?
«Direi tantissimo, ma ci tengo a precisare che, nel mio caso, sono stato anche molto fortunato perché ho trovato un conservatorio all’avanguardia, non la solita e rigida accademia. Devo tutto al Maestro Angelo Valori, una persona molto ricca d’animo che mi ha lasciato libero di tirare fuori il mio senso estetico musicale. La disciplina è importante, ma è di vitale importanza scegliere da soli la propria strada, mantenere intatte le proprie particolarità e non farsi plasmare da nessuno. Precisato questo, per molti giovani è vero che tutto può sembrare abbastanza facile, la tecnologia ci regala strumenti avanzati con suoni preconfezionati».
Possiamo sfatare il mito che comporre musica sia solo una questione di ispirazione, soprattutto in questo determinato momento storico?
«Oggi viviamo un mercato ultra consumista, ogni giorno escono centinaia di canzoni, ma quante di queste resteranno,? Non intendo nei secoli, ma semplicemente anche dopo poche settimane. La questione è che senza studio non si può trovare un’identità che possa andare al di là delle mode e che resti nel tempo, anche se nel nostro Paese non viene data molta importanza all’educazione musicale, per questo motivo ci ritroviamo in balia delle mode. Oggi la musica può farla chiunque, non c’è più una preparazione tecnica che presuppone che tu abbia un chissà quale spessore culturale, stiamo assistendo ad un graduale processo di democratizzazione della musica e in questo marasma di proposte ci sono sia cose interessanti che cose fatte poco bene, poi sta al pubblico esprimere le proprie insindacabili preferenze».
Ti faccio la domanda più banale del mondo, ma sono certo che la tua risposta non lo sarà affatto: da cosa trai principalmente ispirazione per le tue produzioni?
«Dal punto di vista personale traggo ispirazione dalle influenze e dalla tradizione della nostra terra, più in generale dell’intero Mediterraneo, un mare sconfinato di melodie e ritmica dal quale possiamo tutti attingere, sempre confrontandoci con ciò che accade a livello internazionale in termini di produzione. Non si può non contestualizzare un brano senza tener presente ciò che accade nel resto del mondo, anche se a partire dalla Seconda Guerra Mondiale abbiamo subito una sorta di americanizzazione, non solo per quanto riguarda la musica ma in tutte le forme d’arte, arrivando ad impoverire la nostra vera identità. Nel mio piccolo cerco di rendere interessante, fresca, e anche un po’ internazionale la musica che parte delle nostre radici, creando qualcosa di nuovo con ingredienti genuini e naturali».
C’è un incontro che reputi fondamentale per il tuo percorso?
«Direi due: il primo con il maestro Valori, come già anticipato, senza di lui non avrei mai intrapreso questo tipo di mestiere; il secondo è con Irama, insieme abbiamo iniziato questo percorso pop. Io non scrivo testi, con lui ho trovato la mi penna ideale, sia per i contenuti che per il modo che ha di scrivere, tra le cose che dice spesso mi piace citare la sua frase: “nella vita posso dire qualche bugia ma non nelle canzoni”. Considero il nostro incontro fondamentale, perché nel giro di pochissimo tempo siamo riusciti a farci sentire: con il nostro primo brano “Cosa resterà” siamo approdati tra i giovani di Sanremo nel 2016, una partenza sprint che ha dato il via a questo percorso. Prima di incontrarlo ero molto vicino alla musica strumentale, un po’ fusion, grazie a lui ho scoperto questa mia doppia predisposizione».
Oltre che al sodalizio artistico con Irama c’è anche una bella amicizia, quali sono i vostri punti di contatto e, se ci sono, quelli di scontro?
«Come punto di contatto, essenzialmente viviamo entrambi per questo lavoro. È una passione che ci prende e ci avvicina, quando due persone hanno in comune lo spirito di sacrificio e lo stesso obiettivo è come se fossero sempre unite, per farti un esempio questa estate abbiamo passato le vacanze insieme in Salento a scrivere cose nuove. Punti di scontro? Soprattutto nella fase creativa, penso che il confronto sia sempre una cosa sana, da lui ho imparato un sacco di cose e viceversa, su alcune cose ci ho visto lungo io su altre lui, ma alla fine c’è una fiducia reciproca che salva sempre un po’ tutto».
“Irama”, “Plume” e “Giovani”, tre progetti discografici che ti vedono protagonista, ci racconti la loro evoluzione?
«Sono tre album che rappresentano per noi l’inizio: “Irama” è stata la genesi, come racconta sempre lui, è stato scritto in cameretta ed è vero, perché eravamo appoggiati provvisoriamente a casa dei miei (sorride, ndr). “Plume” rappresenta il suo percorso ad Amici, con dei brani che avevamo già scritto e pronti da prima ma che, per motivi da lui spiegati su cui non voglio risoffermarmi, siamo rimasti fermi per un po’ di tempo, non riuscivamo a farci sentire per quello che volevamo. Infine “Giovani” è, forse, il più rischioso dei tre dischi, Filippo veniva dalla vittoria del talent ma ha voluto prendere subito una posizione chiara, precisare la sua forma artistica senza freni inibitori o limitazioni, abbiamo riflettuto a lungo sui rischi e alle varie eventualità ma alla fine, come al solito, ha prevalso la musica e la nostra spinta creativa».
Attualmente sei in tournèe con lui, quanto conta per un musicista la dimensione live?
«Fino a tre o quattro anni fa suonavo tantissimo, poi iniziando a fare il produttore, purtroppo, ho dovuto frenare l’attività dal vivo, ma è stato un bel ritorno e devo dire che mi mancava moltissimo il palco, anche perché in studio non hai mai un riscontro immediato del pubblico, in più i concerti trasmettono tantissima energia, tutta una serie di emozioni da cui sicuramente trarremo ispirazioni per nuove cose da scrivere insieme».
https://www.youtube.com/watch?v=YxB77XvIxJ4
Cosa pensi del livello degli artisti emergenti del nostro Paese?
«Generalmente tendo a collaborare sempre con emergenti, forse solo con Francesco Guasti mi è capitato di lavorare con un artista ben definito, mentre per quanto riguarda gli altri, tra cui cito Francesca Sarasso e i Kobaan, sono rimasto molto colpito dal loro modo di scrivere che ci ha permesso di lavorare con più libertà. Il criterio fondamentale per suscitare in me l’interessamento verso un artista è la scrittura, perché il mercato di oggi è saturo di interpreti e povero di cantautori, credo che la forza della musica pop stia proprio nella verità, chi ci mette del suo raccontando se stesso nei testi è sicuramente facilitato ad arrivare al grande pubblico».
A livello discografico, invece, cosa pensi della situazione dell’attuale settore?
«È un momento complicato, fino a qualche anno fa abbiamo avuto un periodo positivo perché i social hanno dato una mano alla discografia, tanti progetti sono nati o si sono concretizzati su YouTube e Facebook, oggi come oggi il mercato è in mano ai talent show, senza passaggi in televisione o in radio difficilmente un emergente ha possibilità di farsi conoscere, nemmeno il Festival di Sanremo ha la stessa potenza di fuoco di “Amici” o “X Factor”, esperienze che per parecchi mesi ti portano una grande esposizione. L’industria discografica è in mano a meccanismi a rischio zero, per cui si inseguono le mode e si tende a non creare nulla di nuovo».
Alle varie collaborazioni sopracitate, contrapponi la tua carriera solista, lo scorso maggio hai pubblicato “Adriatic Romance Vol. 1”, un progetto strumentale lontano dalle logiche mainstream. Come riesci a trovare un equilibrio tra ciò che è commerciale e ciò che non lo è?
«Questa è una domanda difficile, la risposta è che non lo so (ride, ndr), in realtà ascolto qualsiasi tipo di musica, il mio gusto personale mi porta lontano dalla cosiddetta “musica commerciale”. Per me rappresenta una sfida riuscire ad arrivare ad un pubblico più vasto parlando una lingua diversa da quella che oggi va per la maggiore, senza inseguire criteri e logiche mainstream. La musica pop mi consente di muovermi liberamente, al di là dei soliti recinti».
Se avessi la possibilità di scegliere un’epoca del passato, quale decennio reputeresti più vicino al tuo modo di intendere la musica?
«Credo che il periodo più bello sia stato a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, perché c’era un elevato grado di sperimentazione e la musica non era vissuta in maniera pop commerciale. Oggi si è persa un po’ la sacralità di questa forma d’arte, ci capita costantemente di sentire canzoni, nel supermercato mentre facciamo la spesa o mentre siamo in attesa per parlare con un call center, si è perso un po’ di quel sano spirito poetico che ha ispirato i The Doors e altri artisti leggendari che hanno fatto la storia della cultura musicale. Un tempo dovevi necessariamente saper suonare almeno uno strumento, adesso non ce ne accorgiamo ma i sequencer con i quali produciamo musica hanno già un format predefinito, può sembrare banale ma non lo è, perché gli strumenti che utilizziamo hanno dei confini, bisognerebbe tornare a fare un po’ di sane jam session in studio, perché dall’incontro di più musicisti può succedere davvero di tutto».
Ci sono artisti con cui ti piacerebbe collaborare?
«Certo che si, ci sono artisti che stimo in diversi ambiti. Ciò che mi piacerebbe è continuare ad unire questi due mondi che frequento, perché è giusto che la musica sia varia e con mille variabili. Tra gli artisti che apprezzo, mi viene in mente il chitarrista americano Al Di Meola, che ha anche origini italiane, mi piacerebbe portarlo in una dimensione più pop, perché credo che il pubblico vada educato mediante la bellezza, con degli esempi importanti. Mi piacerebbe collaborare con artisti internazionali, avvicinandoli alla nostra cultura, un esperimento che potrebbe risultare davvero interessante».
Per concludere, quali sono i tuoi prossimi progetti in cantiere?
«Sto già lavorando con Irama per cose nuove, che a breve comunicherà lui stesso, il nostro percorso insieme continua. Poi, sto seguendo un giovane artista che si chiama Epicoco, con cui spero di realizzare a breve un EP, in più sto iniziando a scrivere un nuovo mio disco strumentale, che vorrei fosse un po’ più composto di “Adriatic romance”, non so quanto tempo ci vorrà per realizzarlo, ma cercherò di aprirmi un po’ di più dal punto di vista internazionale per quanto riguarda la composizione».
Nell’imminente invece? Cioè, per essere più espliciti, hai impegni dal 5 al 9 febbraio?
«Ehm, chi lo sa? Non posso dirti nulla al momento, anche perché non lo sappiamo (ride, ndr). Come diceva Battisti, lo scopriremo solo vivendo!».
Nico Donvito
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