I nuovi linguaggi nei testi della musica italiana: tra il criptico amore indie e leggerezza della trap
“Volevo fare il cantante delle canzoni inglesi, così nessuna capiva che dicevo”, dice Bugo nel ritornello di Sincero, pezzo che dopo l’esperienza sanremese non sta facendo fatica ad essere molto apprezzato da pubblico e radio. Eppure, al di là di ciò che canta Bugo, sembra che a noi italiani continui a piacere la nostra musica, almeno stando alle classifiche: il nostro linguaggio, il nostro stile e, alla fine, le nostre parole.
Che scrivere in italiano sia complesso si sa da sempre, è un dato di fatto conseguente alla tipologia del nostro alfabeto e della nostra grammatica. Rime, assonanze e giochi di parole: un vortice di fattori che i nostri artisti ovviamente non possono non tenere in considerazione al momento della scrittura; ma al giorno d’oggi, parlando di testi, dove va a parare la musica che ci viene proposta e che primeggia nelle classifiche di vendita?
L’ultima volta (qui) ci eravamo lasciati con un’analisi a doppio taglio: da una parte i nuovi linguaggi dell’ondata rap/trap, volti sempre di più ad una semplificazione di concetti e termini scelti, e dall’altra una tendenza opposta all’interno del panorama indie-pop che verte maggiormente nell’uso di metafore e che si appoggia alla cosiddetta scrittura per immagini, ovvero canzoni che puntano a descrivere un mondo, che sia esterno o interno poco importa, in cui di volta in volta appaiono nuove immagini e allo stesso tempo ne scompaiono altre.
Il panorama odierno della musica mainstream italiana appare forse mai come prima mischiato tra generi diversi, e quando tutti i generi si mischiano ecco che non esiste più nessun genere. Eppure Sanremo è stato vinto da Diodato con una canzone in perfetto stile “ballad italiana” (qui la nostra recensione del brano). Eppure l’artista più ascoltato nel 2019 è stato Ultimo (qui tutte le classifiche dell’annata), non di certo un innovatore sotto questo punto di vista. Ciò vuol dire che la tradizione esiste e resiste quando è ripresa con cognizione di causa, anche se è innegabile che proprio nell’ultimo anno i grandi “delusi” commercialmente siano stati proprio cantanti e cantautori “classici” che, salvo qualche raro caso, hanno arrancato parecchio sotto il punto di vista delle vendite.
Non hanno certamente arrancato i rapper, eppure anche qui bisognerebbe partire con un’analisi su più livelli, perché dire “il rap e la trap non hanno contenuti” nel 2020 appare un grosso errore. Se è vero che da una parte la grande fetta di pubblico giovanile ha premiato artisti dal linguaggio più frivolo ed immediato, è altrettanto vero che nell’ultimo periodo abbiamo assistito al proliferarsi di artisti volenterosi di imporsi anche utilizzando un lessico più complesso, basti pensare in questo senso alla nuova scena genovese, ben rappresentata tra gli altri da autori come Izi e Tedua o Bresh. Stesso discorso che può essere ripreso per la scena milanese (Ernia, Rkomi…) e soprattutto per quella romana che, grazie ai lavori di artisti quali Franco 126 e Carl Brave, ha trovato nuova linfa e uno slancio che in qualche modo la ricollega alla sua grande tradizione cantautorale.
Polaroid ad esempio, il primo disco della coppia Carl Brave x Franco 126, anche se uscito ormai più di due anni fa, sembra già possedere tutte le carte in regola per rappresentare un classico degli anni ’10, il perfetto esempio di nuovo linguaggio. E non può essere un caso allora che anche i grandi artisti pop cerchino in tutti i modi di collaborare con rapper e rappresentati del mondo “indie” italiano. E allora forse ancor di più che una distinzione in generi sarebbe utile una categorizzazione nei linguaggi nel 2020: da una parte quindi la trap con la sua immediatezza e piena di slang semplici o presi oltreoceano, dall’altra quel gran numero di artisti che veramente può essere considerato come cantautorato 2.0. In mezzo, poi, tutto il grande mondo pop, dal quale come un elastico ci si avvicina o ci allontana a seconda delle esigenze, e che vive e rivive soprattutto nei lavori dei grandi nomi, impossibilitati nell’allontanarsi troppo dalla cosiddetta “comfort-zone”.
E di cosa si parla? D’amore ovvio, ma forse ancor di più di vita vissuta, come se a parlare d’amore ci si arrivi per forza quando si sta parlando di vita, in un modo o nell’altro. Come se i nuovi linguaggi stiano regalando agli artisti la possibilità di non avere più un argomento fisso ma che consentano di girovagarci intorno parlando di tutto e scattando numerose fotografie, sconnesse una dall’altra ma con un senso che si trova nell’insieme. I grandi temi universali sono così abbandonati a dispetto della semplice quotidianità, che si carica così alle volte di nostalgia, alle volte di euforia. Sentire per credere la Roma descritta da Carl Brave, gli spaccati di vita di Tommaso Paradiso e di Gazzelle, la Genova di Tedua, la Milano di Calcutta o semplicemente le istantanee “scattate” da Elodie e Francesca Michielin nei loro ultimi lavori, non a caso pieni di ospiti “fuori genere”.
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