Perchè Elisa è riuscita a vincere la sfida della contemporaneità?
Definire oggettivamente il pop è un’impresa ardua, anzi impossibile. Lo è perchè il pop è un fenomeno in costante mutamento ed evoluzione per sua stessa natura. Il pop non ha forma, non ha ricetta, non ha traccia proprio perchè è pop, ovvero popolare e, si sa, la popolarità di un gusto sta proprio nella sua mutevolezza, nel suo continuo rigenerarsi cambiando la propria pelle e la propria sostanza.
C’era una volta una giacca blu che spalancando le braccia urlava all’Italia del boom economico degli anni ’50 “volare oh oh, cantare oh oh oh oh” quasi invocando a spiccare quel volo tanto meritato e sognato e finalmente raggiunto con il sudore della fronte ma anche con quel pizzico di leggerezza che il bel Paese da sempre porta con sè. Quello di Domenico Modugno nella sua Nel blu dipinto di blu non poteva che essere che un canto pop proprio per quel suo linguaggio popolare capace di conquistare con il suo motivetto la mente di milioni di italiani (e non solo).
Ma c’è stata una volta anche una signora con i capelli neri raccolti ed uno stretto corpetto bianco che aprendo ugualmente le proprie braccia cantava con rabbia e dolore alla stessa platea che “la gente è matta, forse troppo insoddisfatta” per esprimere tutto il suo amore e la sua rinascita artista e vitale in un ritornello incisivo e memorabile. Un inciso che sarebbe passato alla storia del pop come rivoluzionario per aver detto senza filtri “Almeno tu nell’universo”. Mia Martini, proprio come Modugno, era pop eppure i due non condividevano poi molto musicalmente. Non abbastanza, almeno, per finire all’interno di una stessa categoria.
E poi ci sono state la pancia finta di Loredana Bertè, i look stravolgenti di Anna Oxa, le poesie d’amore di Roberto Vecchioni, la voce possente di Mina, la scrittura contemporanea di Tiziano Ferro, il romanticismo dei Modà, l’internazionalità melodica di Laura Pausini, la mutevolezza di Marco Mengoni. Insomma, c’è stato il pop ed il pop non s’è fermato mai, ha continuato a suonare e a cambiare pelle per rincorrere i tempi senza la paura di perdere la propria mutevolezza. Come scriveva, in fin dei conti, il grande filosofo tedesco Friedrich Nietzsche nello spiegare la sua visione dell’eterno ritorno: “io torno di nuovo, con questo sole, con questa terra, con questa aquila, con questo serpente non a nuova vita o a vita migliore o a una vita simile, io torno a questa identica vita nelle cose più grandi e anche nelle più piccole”. Il pop, nella musica, è esattamente così: una continua “clessidra dell’esistenza” pronta a tornare continuamente sul proprio tracciato non in una forma simile ma identica pur cambiandone l’apparenza.
A leggere i giudizi dei grandi critici d’oggi il pop non fa più parte della nostra attualità musicale. In Italia, poi, è stato sostituito completamente dall’arroganza sgraziata del linguaggio del rap, sfregio di quella poesia melodica che nei gloriosi anni ’90 portava in alto la bandiera della suggestione sentimental-evocativa più pura. E, invece, il pop, dico io, esiste ancora ed è più vivo che mai. Ha solo scelto di cambiare nuovamente pelle, di accantonare il guizzo espressivo emotivo-sentimentale per incarnare lo spirito della parola, di lasciare la ricerca spasmodica del bel canto e della tecnica vocale per far nuovamente propria l’immediatezza del linguaggio e delle immagini quotidiane. Non è un peccato, è un ritorno al passato. Un ritorno che, prima o poi, arriverà nuovamente a raschiare il fondo della clessidra provocando un nuovo stravolgimento inatteso di scenario.
In tutto questo, però, il destino di chi è nato nel pop vecchio stampo qual è? Sopravvivere difendendo una roccaforte già condannata a soccombere accerchiata dal nemico arrivando prima o poi ad arrendersi, seppur gloriosamente, alle armi dell’assediante oppure cercare di trovare una ricetta in grado di trovare un proprio motivo d’esistenza anche all’interno dei nuovi linguaggi musicali? In pochi hanno scelto la via della resistenza e in molto, soprattutto tra gli alti vertici delle gerarchie numeriche di ieri, hanno provato la via del mantenimento del successo anche a costo di risultare altro da sè, altro da ciò che li ha scoperti ed incoronati come miti della canzone italiana di ieri.
Ed è così che Laura Pausini s’è trovata tra le mani i ritmi latineggianti di Innamorata, che Tiziano Ferro ha messo da parte il suo timbro profondo perfetto per dipingere i cieli scuri del dolore sentimentale per scoprirsi nuovamente nuovo dentro l’elettronica, che Giorgia ha avuto il coraggio di reinventare i classici senza tempo del pop all’interno dei nuovi dettami musicali. Gli effetti sono un po’ quelli che sono visto e considerato che ognuno di noi ha il proprio senso d’esistere che cambiando scenografia si trova, forse, eccessivamente snaturato ed estrapolato dal giusto contesto.
Chi ha superato la prova del tempo e del mutare del pop? Ad oggi solo una appare essere degna del titolo di regina del progresso musicale del pop: Elisa. L’artista friulana è nata rock nelle sue tinte inglesi d’oltreoceano, s’è reinventata interprete di classe ed eleganza quando ha scoperto l’italiano, ha sperimentato linguaggi minimali, intimi ed orchestrali per poi spolverare con consapevolezza l’elettronica e la ricerca meccanica. Oggi, invece, Elisa viaggia in bilico nella linea di confine tra pop e indie riuscendo a mettere insieme i due mondi senza risultare costruita e artificiale, senza perdere di attualità, di capacità e di coerenza. Elisa ha battuto la concorrenza riuscendo a dimostrarsi adatta a cantare Ligabue esattamente come Calcutta e Tommaso Paradiso. Elisa è rimasta sè stessa cambiando. Proprio come il pop.
Ilario Luisetto
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