Come le canzoni hanno raccontato il tema dell’io
Attenzione, questo è un articolo ad alto rischio di riflessione e pensiero “indipendente”. Tutto inizia e finisce con la parola “io”? “Questo dolce monosillabo innocente”, a detta di Giorgio Gaber, “è fatale che diventi dilagante Nella logica del mondo occidentale”, perché “forse è l’ultimo peccato originale Io”.
Una premessa è d’obbligo e ce la canta Mina: “io sono quel che sono e valgo quel che valgo”. In virtù di questo, Emma ci insegna a diventare impavidi nelle relazioni e arrivare a dire, “io di te non ho paura E tu di noi che cosa vuoi sapere ancora”. Quando amiamo, nascono tanti interrogativi, però, e altrettante sono le reazioni di fronte a un sentimento così misterioso. Così, mentre Anna Oxa constata che “c’è chi nell’amore Mette tutto in piazza che gran brutta razza” e se ne tira fuori con un netto “io, io no”, Vasco Rossi ci racconta il desiderio della coppia come una giocosa tentazione, in cui “io me ne stavo tranquillo Facendo finta di dormire Lei si avvicina piano (…) Io non mi muovo sto fermo La lascio continuare (… ) Io non so più cosa fare A questo punto mi dovrei svegliare Forse dovrei saltarle addosso Come fossi un animale E dovrei essere molto virile (…) O forse è meglio lasciare stare Non posso rischiare Forse è meglio che mi rimetta a dormire”.
Sceglie l’attesa anche Alex Britti, “e non so se sarai tu davvero O forse sei solo un’illusione Però stasera mi rilasso Penso a te E scrivo una canzone”. Una solitudine che, in questo caso, non spaventa, anzi diventa condizione per un “io” più autentico, “dolce più che posso Come il mare come il sesso Questa volta lo pretendo Perché oggi sono io”. Tuttavia, il nostro “io” entra in gioco sia “quando siamo Io, tu e le rose Io, tu e l’amore”, per dirla con Orietta Berti, sia quando “io canto e tu Intanto gridi che è finita”, come canta Gianni Bella, e mentre “muore l’amore Tutto il resto è vita”.
Troppe volte frammentati, ci sentiamo “a pezzi”, disgregati dalla stessa solitudine, che osanniamo come libertà, e che Marracash sa mettere bene a fuoco: “soffocati gli idealismi, condannati a non capirci Forse è questo, forse siamo solo più egoisti Forse un cane, niente figli Forse niente ha senso (…) Scusa se sono profondo solo quando sono triste Chi non finge? Io che non sono più io Io non mi fido di Dio Io tutto e Io niente Io stasera Ah, io sempre Io con più niente di mio Io e nient’altro che io”.
Queste parole ci fanno riaffiorare quelle di Renato Zero, “oggi che fatica che si fa Come è finta l’allegria Quanto amaro disincanto Io sono qui Insultami, feriscimi Sono così Tu prendimi o cancellami (…) Io mi berrò L’insicurezza che mi dai L’anima mia Farò tacere pure lei”, nonostante resti la speranza di vivere, anche clandestinamente, quell’amore proibito. Adriano Celentano ci fa pensare, invece, alle volte in cui “io non so parlar d’amore”, perché “l’emozione non ha voce”, ma “la mia anima si spande” così tanto da dire, con Pino Donaggio, “io che non vivo Più di un’ora senza te Come posso stare una vita Senza te”.
In molte canzoni, ci imbattiamo con un “io” socializzato in un contesto più ampio, perfino ipotetico e indefinito; per esempio, l’“io canto” di Riccardo Cocciante, particolarmente descrittivo nella narrazione, “le mani in tasca (…) La voce in festa (…) La banda in testa (…) Corro nel vento La vita intera (…) La primavera (…) La mia preghiera”, si rivolge a un pubblico ideale e “per chi mi ascolterà”.
Canta per la madre scomparsa Sergio Endrigo, “io che amo solo te, Io mi fermerò E ti regalerò Quel che resta Della mia gioventù. Io ho avuto solo te E non ti perderò, Non ti lascerò Per cercare nuove illusioni”. Sono sempre troppe le illusioni con cui imbrattiamo l’amore, confondendolo con il possesso materiale. Questo “io” confuso, a tratti, disorientato e perso, emerge da Junior K, Rkomi e Sfera Ebbasta: il “nuovo Range e l’ho preso per lei (…) un po’ perché mi piaceva Lei si lamenta: <Mirko, dove sei?> Io non pensavo nemmeno che stessimo uscendo (…) Io quelli come te li riconosco dai gesti Hai i soldi di tuo padre, ma fai il video con i ferri Posso comprarti Gucci, oppure Louis, oppure Fendi So che sei con lui, ma che tra un mese ti penti Ti porto a Miami sulla barca o sopra il jet-ski Per questi gioielli non bastano i tuoi stipendi (…) Vado a letto alle sei E non so dove sei, non so più dove sono Mentre scattano i flash Io e te usciamo dal back”.
E infine, quell'”io” che affronta tematiche di politica sociale, di difficile conciliazione, con la paura del giudizio sociale, preferendo non esporsi in prima persona, ma mimetizzandosi con un impersonale “qualcuno”. “Stando ai discorsi di qualcuno”, canta Willie Peyote, “Lampedusa è un villaggio turistico I cinesi ci stanno colonizzando E ogni Imam sta organizzando un attentato terroristico Stando ai discorsi di qualcuno Gli immigrati vengono tutti in Italia Qui da noi non c’è più futuro Guarda i laureati emigrati in Australia Beh, è troppo facile dire <questi ci rubano il lavoro Devono restare a casa loro!> (…) Chi dice io non sono un razzista ma E’ un razzista ma non lo sa”.
A costoro, risponde Niccolò Fabi con “io sono l’altro Sono quello che spaventa Sono quello che ti dorme nella stanza accanto. Io sono l’altro Puoi trovarmi nello specchio La tua immagine riflessa, il contrario di te stesso.Io sono l’altro Sono l’ombra del tuo corpo Sono l’ombra del tuo mondo Quello che fa il lavoro sporco Al tuo posto”. Per tutto questo, vorremmo poter cantare con Fiorella Mannoia “io non ho paura Di quello che non so capire (…) Di quello che non puoi vedere (…) Di quello che non so spiegare Di quello che ci cambierà”; vorremmo poter dire, con Francesca Michielin, “io non abito al mare Ma lo so immaginare” e, magari, concretizzare le parole di Mango, “io nascerò Per me solo ancora nascerò Nessun vento mi potrà più fare male Ormai affronto il mare…Affronto il mare…”.
Francesco Penta
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