Il raffronto tra l’ultimo singolo del cantautore e precedenti illustri
Siamo al tempo del pop che non è soltanto pop. Viviamo le contaminazioni dei generi musicali, dell’auto-tune a manetta, di una nuova metrica nei testi e del conseguente modo di cantarli. Spesso, assistiamo a novità discografiche i cui offerenti sono nomi che balzano alla popolarità repentina, come se l’aspettassero dietro l’angolo. Da qui, nasce l’intento di analizzare il caso di Blanco e la Nostalgia del suo ultimo singolo.
Leggendo il testo, è proprio quel senso di nostalgico che si attiva a tal punto da farci venire voglia di fare un tentativo: trovare parallelismi con altri pezzi del pop più tradizionale, mettendo in connessione parole e contenuti semantici. I punti di contatto fra i testi, nati in anni molto diversi e distanti fra loro, non si devono ritenere un giudizio né una critica qualitativa agli artisti, ma si costituiscono come intenzione di trovare continuità nelle differenze di stile, di linguaggio e di contesto, certi, invece, del loro comune desiderio di intrattenere e comunicare messaggi a chi li ascolta.
L’apertura di ‘Nostalgia’ porta la firma del cantante, “Blanchito babe”, e richiama una consuetudine che è pure di Baby k. Un modo nuovo di presentarsi al pubblico e, in generale, di affermare l’identità artistica di ciò che stiamo già ascoltando. Segue un impattante “ti vorrei comprare come se fossi una bambola”, che, nel significato letterale, potrebbe far pensare a uno stereotipo negativo sulla donna per l’uso di un termine inanimato come ‘bambola’ in riferimento alla persona amata, se non fosse che tutto il resto della canzone s’incentra sulla mancanza della stessa e il desiderio di rinnamorarsi di lei. Quella bambola riporta alla memoria la famosa metafora di Patty Pravo, “tu mi fai girar come fossi una bambola, poi mi butti giù come fossi una bambola”, da cui emerge, anche qui, con grande evidenza, il rapporto asimmetrico all’interno della coppia. Questa condizione, tra le altre, può esporre al rischio di “cadere in una trappola” emotiva, della paura, del ricordo solo delle scopate e dell’illusione di ricominciare magari ancora insieme. L’ipotetica usata, “e me ne andrei ma non potrei scordarti”, è detta della possibilità; esprime cioè un’ipotesi possibile, ma non certa e si forma con il congiuntivo imperfetto nella frase introdotta da “se” e/o con il condizionale semplice nella frase principale, come nel nostro caso.
Un collegamento diretto può essere fatto con Claudio Baglioni, “ho paura sai Paura sai, paura sai Io me ne andrei”, quando esprime, egualmente, i dubbi di una relazione d’amore. La quartina successiva di Nostalgia si struttura con una metafora in rima simmetrica, rafforzata dalla ripetizione metonimica delle parole mare, colmare, sesso, stesso, vuoti, vuoi: “per i tuoi occhi color mare, color mare Vuoti da colmare, da colmare Vuoi colmarli col sеsso, vuoi farlo adesso Fino a non sentir più me stеsso, fino all’eccesso”. Quegli occhi associati al mare ci riportano a Lucio Dalla, che “guardò negli occhi la ragazza Quegli occhi verdi come il mare” nella canzone Caruso.
Finalmente arriva il tema centrale del pezzo, che ci riporta al pezzo storico di Al Bano e Romina Power, “nostalgia, nostalgia canaglia Che ti prende proprio quando non vuoi Ti ritrovi con un cuore di paglia E un incendio che non spegni mai”. Se Blanco limita questo sentimento nostalgico soltanto all’amore, nel duo Carrisi-Power si fa più esteso e viene collegato al ricordo “di una strada, di un amico, di un bar Di un paese che sogna e che sbaglia Ma se chiedi poi tutto ti da”. La nostalgia è mancanza di chi abbiamo vissuto, delle esperienze che abbiamo condiviso, di cui soffriamo tanto il ricordo “che manderei tutto a fanculo senza di te Senza di te, ma ho nostalgia-ia Perché sei come casa mia-ia”.
In questo punto, un nuovo nucleo semantico: la persona amata è un porto sicuro; una casa dove sentirsi affettivamente protetti così tanto che “ti ho detto che non posso stare senza di te”. Similmente, canta Giordana Angi “se non sei tu la casa io non so più abitare E se non c’è non c’è Quel posto che credevo di conoscere Allora io mi fermo E smetto di cercare C’è troppo spazio adesso Per me che voglio stare Con te”. Perché “io non Stare senza di te, non si può” dicono, in parallelo, i Pooh. Di nuovo Claudio Baglioni “senza te Morirei (…) Scoppierei (…) Brucerei Tutti i sogni miei Solo senza di te Che farei” nel suo ‘Sabato pomeriggio’ o anche Jovanotti che “sono solo stasera senza di te” perché “mi hai lasciato da solo davanti al cielo” e invita “vienimi a prendere Mi vien da piangere Mi riconosci ho le scarpe piene di passi (…) E gli occhi pieni di te”.
Un’ultima riflessione: come e quanto pesa quel “mandare a fanculo” se stessi o un’altra persona per un comportamento, un sentimento non corrisposto? Questo “mandare a fanculo” è significativo quanto quello rivolto a un intero sistema da cui ci si vuole tirar fuori? In tal senso, è esplicativo il Vaffanculo di Marco Masini, che ci fa entrare nel valore di una vera e propria impresa: quella di riuscire a sbarazzarsi di tutto quello che ci rende fasulli, di smascherare i ruoli in cui siamo ingabbiati, tanto più quando “è l’amara confessione di un cantante di successo”, chiamato a raccontare attraverso la sua arte “il bisogno d’amore che c’è” in ogni essere umano; consapevole che l’artista è inserito in una macchina in cui “la musica è cattiva, è una fossa di serpenti” e “non si può cantare il nero della rabbia coi miliardi”, perché il rischio è di dover ammettere che “siamo tutti conformisti travestiti da ribelli Siamo lupi da interviste e i ragazzi sono agnelli Che ti scrivono il dolore nelle lettere innocenti E la loro religione è di credere ai cantanti Ma li trovi una mattina con la foto sul giornale In quell’ultima vetrina con la voglia di gridare al mondo: Vaffanculo”.
Non è una scelta casuale quest’ultimo parallelismo. Azzardato soltanto in apparenza, ci offre, in realtà, il bianco e il nero di una fotografia e ci permette di guardare il soggetto dello scatto, in controluce, attraverso il suo negativo. Non sarà il caso di Blanco sicuramente, ma una cosa dovremmo riflettere di più: il successo andrebbe osservato da più angolazioni, letto in modo più critico, soprattutto quando è istantaneo. Il successo dovrebbe essere l’approdo nel tempo di un percorso di ricerca e non solo il fenomeno improvviso di un momento, visto che di tante meteore, forse mai troppe, potremmo non sentirne nostalgia in un futuro nemmeno lontano.
Francesco Penta
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