Un libro, una canzone: insieme
Immaginatevi un palco. Fin qua, tutto facile. In mezzo al palco, una sedia girata al contrario. Presumiamo, dalle braccia che sporgono dai braccioli e da un giornale aperto tra le estremità di esse, che ci sia seduto qualcuno. Non vediamo chi. Ciò che vediamo, oltre alla sedia, è una donna, in piedi, di fianco ad essa. Basta.
Ora, immaginatevi che la donna parli. Parli, parli, parli e non la smetta più. E l’uomo seduto? Niente, neanche una parola, neanche un cenno. Niente. Bene, se siete arrivati a questo punto vi basti poco ad immaginarvi che lo spettacolo teatrale, di fatto, proceda tutto così.
Diatriba d’amore contro un uomo seduto è una idea abbastanza semplice, resa però folle dalla tortuosa e fantastica penna di uno degli scrittori che più ammiro nei suoi voli pindarici e magici: Gabriel García Márquez. Qui di magico in realtà, non c’è molto – ammesso che uno possa trovare magico l’idea di sentire una donna parlare per due ore con un uomo che non la ascolta neanche per mezza parola – se non per il suo finale onirico. Il motore che c’è dietro a questo monologo (che è poi un racconto ad una voce) è molto semplice: raccontare le donne. Le loro sofferenze, i loro dolori, le loro parole e, soprattutto, i loro silenzi. La donna scelta da Marquez per raccontare tutte le donne è Graciela, donna di umili origini che sposa un benestante.
Hanno sempre un qualcosa di poetico e di tragico questi personaggi: quelli destinati alla felicità, alla pienezza dei sensi, e che invece si scontrano con una realtà che non è la loro, camminatori di una strada che non porta a nessuna meta. E così la diatriba d’amore contro un uomo seduto diventa la diatriba d’amore di tutte le donne contro tutto ciò che l’amore lascia per strada. I sogni spezzati, le incertezze del futuro, la bellezza e la magia della giovinezza che lascia il posto ad un ingombrante e lacerante rottura del tempo.
Si entra in questo dolore e ci si sente sempre più colpevoli, sempre più seduti su quella sedia. Sarebbe bello poterlo smuovere, quell’uomo lì. Anche solo con un tocco sul braccio, qualunque cosa per farlo alzare e fargli dire “scusami, è colpa mia”, oppure “hai ragione, cara” o anche “però devi sapere che…”
E invece quello zitto. Ecco dove finisce l’amore che si perde: nei silenzi di chi non ascolta. Questo monologo diventa così uno straziante inno di un amore non ricambiato, o meglio, di un sentimento non ascoltato. È un canto spezzato come la canzone di Tosca “Ho amato tutto”. Soprattutto nella parte in cui Tosca ricorda il dolore dell’amore.
“Dove si vive solo di uno sguardo
È tardi, si spegne la candela
È sempre troppo tardi
Per chi non tornerà”
C’è sempre una diatriba d’amore, in ogni storia, in ogni legame. Questo ci insegna Marquez nel suo unico testo teatrale che ha scritto. A volte siamo Graciela, e a volte siamo l’uomo seduto. In mezzo a loro, migliaia di chilometri di incomprensioni, non detti, paure e, a volte, l’incapacità ultima di amare qualcuno a cui vuoi bene.
Si chiude il sipario, il palco rimane vuoto. E l’uomo rimane ancora lì seduto mentre Graciela urla disperata dietro le quinte. Silenzio. Nessuno spettatore si muove.
Un’ultima domanda.
Si alzerà prima l’uomo seduto o noi spettatori?
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