A tu per tu con il cantautore toscano, alla vigilia del suo atteso debutto sul palco del Teatro Ariston
Tra gli esordi più attesi della 69esima edizione del Festival di Sanremo, spicca il nome di Francesco Motta, in arte Motta, uno degli esponenti più interessanti della nuova scena cantautorele. “Dov’è l’Italia” è una canzone destinata a non passare inosservata, bensì a lasciare il segno in questo particolare e disorientato momento storico che stiamo affrontando. Dopo aver calcato il palco dell’Ariston per ritirare la prestigiosa Targa Tenco lo scorso ottobre, l’artista classe ’86 tornerà in riviera per prendere parte alla gara della più ambita e importante kermesse musicale del nostro Paese.
Ciao Francesco, benvenuto su RecensiamoMusica. Comincio col chiederti dove e come è nata “Dov’è l’Italia“?
«Tutto è cominciato da un viaggio che ho fatto a Lampedusa, dove ho parlato con il capitano di un caicco che mi ha raccontato una storia interessante. Su quell’isola ho conosciuto dei supereroi, persone eccezionali che hanno accettato l’idea del diverso, abbracciando culture differenti. In genere compongo le canzoni al mio ritorno, in questo caso ho scritto il pezzo in giro per il mondo, in particolare anche a New York, ho scoperto che la lontananza ti porta a vedere le cose con più lucidità».
Cosa hai cercato di trasmettere attraverso le parole di questa canzone?
«In questo testo ho cercato di trasmettere il mio disincanto e tutta la speranza che nutro nei confronti dell’essere umano, ho molta fiducia nel popolo italiano, nonostante consideri questo Paese malato, a tratti maleducato e con troppa violenza. Oggi come oggi, purtroppo, avverto una forte mancanza di educazione civile».
Non hai il timore che questo tema, sociale e non politico, possa essere strumentalizzato o non compreso perfettamente?
«Si, come ho paura di uscire di casa, nel senso che le cose che non conosciamo possono in qualche modo inquietarci, ma ho voluto rischiare e giocarmela dicendo come la penso. Sono state strumentalizzate anche le parole di Claudio Baglioni, che non ha detto niente di politico, ha solo espresso un pensiero umano, ovvio e comprensibile. I miei genitori mi hanno insegnato ad avere rispetto per gli altri, se non si riescono a comprendere queste cose semplici e piuttosto basilari il problema non sarà certo nel mal interpretare la mia canzone, ma in qualcosa di molto più grosso ed elevato».
Nonostante questo hai deciso di esporti in uno dei contesti più importanti d’Italia, perché?
«Perché fa parte del mio carattere, della mia istruzione e del mio DNA, anche se esporsi non porta mai nulla di buono, è molto più efficace non dire un c***o, perché non si rischia di non essere compresi e mi riferisco sempre ad un discorso sociale, non politico. Prendere una posizione è poco vincente, esprimere le proprie opinioni è diventata ormai un’arma a doppio taglio, una pratica dal quale si cerca sempre un po’ di fuggire».
Cosa ti ha spinto a scegliere di partecipare al Festival di Sanremo?
«Il ruolo del cantautore è quello di dire la verità, trovando una sintesi, cercando di arrivare a descrivere quello che succede, magari davanti a più persone possibili. Riguardo la mia partecipazione a Sanremo me l’hanno chiesto in molti, ma trovo che non ci sia niente di così strano… è il Festival della canzone italiana, io scrivo e canto canzoni in italiano, mi sembrava il posto ideale per presentare un progetto importante, per cui non mi sento per niente fuori luogo».
Come ti stai preparando psicologicamente? Ad ansia come stai messo?
«L’ansia c’è, anche se ho fatto tanti concerti nel corso della mia vita, mi rendo conto che l’Ariston è un palco impegnativo, soprattutto per me perché, senza girarci troppo intorno, ho l’obiettivo di entrare nelle case delle tante persone che non mi conoscono. E’ una grossa responsabilità, ma ho voluto portare me stesso, senza snaturarmi, cercando di riassumere tutto quello che ho realizzato sino ad oggi. Le prove con l’orchestra sono andate benissimo e mi sono emozionato, perché ho avuto a che fare con dei musicisti pazzeschi».
Hai in cantiere un progetto discografico per accompagnare questo tuo esordio sanremese?
«Per il momento no, ho deciso di non fare nessun repack, nonostante sia un suicidio a livello commerciale, ma non trovavo nessun filo conduttore con il mio precedente disco “Vivere o morire”, pubblicato lo scorso aprile, un lavoro a cui tengo molto che aveva senso di esistere così, non ho avvertito la necessità di mischiare le carte aggiungendo qualche pezzo che non c’entrava nulla. “Dov’è l’Italia” è l’inizio di un percorso e di un nuovo album, che non so assolutamente quando uscirà».
Nel ritornello della canzone, in qualche modo, ti chiedi dov’è andato a finire il nostro Paese e in che direzione si sta dirigendo. A cosa si deve la mancanza del punto interrogativo nel titolo?
«Personalmente non mi piace inserire la punteggiatura nei testi, mi piace l’idea di poter dare spazio all’immaginazione sia per i punti che per le virgole. Questo mi permette di rigenerare il testo e di collegare i versi in maniera diversa, in modo anche diverso rispetto all’idea iniziale, restituendogli anche un senso differente».
Per concludere, allora, il punto interrogativo ce lo metto io: secondo te… oggi… dov’è l’Italia?
«Sinceramente non lo so, però voglio esserci, sento l’urgenza e la necessità di stare qui, di fatto vivo a Roma, la città che più rappresenta il nostro Paese. Dove andrà l’Italia riesco ad immaginarlo, al momento sembra che in qualche modo si possa ancora salvare, la fiducia e l’innamoramento sono sentimenti ancora vivi, almeno da parte mia. Spesso scrivo canzoni perché mi faccio delle domande alle quali non so attribuire delle risposte, proprio come in questo caso. Mi rassicura pensare che mio figlio, inteso come la generazione di domani, sarà più intelligente e brillante di me, anche se mi faranno paura i suoi compagni di classe e, ancora di più, il comportamento e il ruolo che avranno i loro rispettivi genitori».
Nico Donvito
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