A tu per tu con il cantautore milanese, in occasione della presentazione dei suoi nuovi progetti
A un anno di distanza dalla nostra precedente chiacchierata, abbiamo il piacere di ritrovare Luigi De Crescenzo, in arte Pacifico, reduce dal fortunato tour estivo e dalla pubblicazione dell’album “Bastasse il cielo“, rilasciato lo scorso 8 marzo. Per concludere nel migliore dei modi questo prolifico 2019, il cantautore ha da poco annunciato nuovi appuntamenti live che hanno tutta l’aria di diventare un vero e proprio evento. Stiamo parlando de “La Settimana Pacifica“ che si terrà dal Teatro Filodrammatici di Milano dal 2 all’8 dicembre, coinvolgendo per ogni serata uno speciale amico/collega: da Malika Ayane (2 dicembre) a Samuele Bersani (3 dicembre), passando per Francesco De Gregori (5 dicembre), Giuliano Sangiorgi (6 dicembre), Francesco Bianconi (7 dicembre) e Neri Marcorè (8 dicembre), più un ospite a sorpresa (4 dicembre) il cui nome non è stato ancora svelato. Info e biglietti su vivaticket.it.
Ciao Gino, bentrovato. Inizierei parlando de “La Settimana Pacifica”, questa sette giorni che si svolgerà qui a Milano al Teatro Filodrammatici dal 2 all’8 dicembre. Com’è nata questa idea e come è avvenuta la scelta particolare della location?
«L’idea è nata abbastanza improvvisamente, non è un progetto a cui ero dietro o che magari rimandavo da tempo. Avevo il desiderio di fare un resident perché è una dimensione che mi piace molto, mi affascinava l’idea di popolare il luogo d’esibizione con idee tue, il fatto di realizzarlo nella mia città è altrettanto bello, soprattutto in un luogo così centrale e speciale. La scelta degli ospiti è stata dettata dall’amicizia, dal lavoro già fatto e dal desiderio di condividere il palco con alcuni di loro che non avevo ancora incrociato, come Giuliano Sangiorgi e Francesco De Gregori. La cosa bella è che tutti hanno aderito nel giro di poco tempo con entusiasmo, quella che poteva sembrare un’impresa difficile in realtà non lo è stata, in maniera del tutto inaspettata».
Com’è nata l’idea del riferimento alla celebre settimana enigmistica?
«Una volta scelto il titolo, che mi sembra anche un bell’augurio quello di una settimana pacifica, il richiamo con la famosa Settimana Enigmistica è venuto facilmente. Ho colto l’occasione di vedere la mia faccia il quel riquadro, una di quelle cose ambite come essere disegnati su “Topolino” (sorride, ndr), in più è uno strumento a cui associo una grande affezione, lo considero uno strumento di aggregazione familiare, il gusto di azzeccare le parole che col tempo non si perde. Un passatempo nel senso più alto della parola, un auspicio che questa settimana possa essere un buon passatempo per tutti coloro che verranno a teatro».
Lo scorso 15 novembre è uscito il nuovo disco di Gianna Nannini, intitolato “La differenza”, che ti vede co-autore di nove tracce. In questi giorni l’abbiamo incontrata e ci ha raccontato l’intero processo creativo, dalla presa diretta alle sessioni di scrittura che ti hanno coinvolto a Nashville. Cosa ci racconti di questa esperienza?
«In realtà abbiamo scritto a Londra, fortunatamente più comoda e molto più vicina per me da raggiungere. E’ stato entusiasmante quanto inaspettato, proprio perché lavoriamo insieme da tanti anni e abbiamo un metodo consolidato. In questo caso, come fanno gli artisti di quel valore, Gianna ha sparigliato tutto e ha preso una stanzetta ricreando lo spirito di quando scrivi dischi all’inizio, l’approccio è stato quello, non eravamo in uno studio e non c’era nessun fonico. Spostando degli elementi abbiamo ritrovato un tipo di approccio diverso, lei voleva lavorare molto sul suono, quindi non voleva seguire formule alle quali eravamo già abituati, è stato divertente ed emozionante, davvero una sorpresa».
Da tempo ormai vivi a Parigi, ne abbiamo parlato anche l’altra volta, che aria si respira oggi a Parigi? Rispetto a un anno fa le cose sono cambiate?
«Quel posto lì, come forse ti dicevo l’altra volta, è un campo di battaglia, una volta abbandonata la tensione puoi finalmente lasciarti andare al mito e al sogno di Parigi. E’ un luogo magico dal punto di vista artistico, per il resto si respira sempre un po’ di tensione, a parte i recenti attentati, la situazione dei gilet gialli non si è placata, a breve ricomincerà un’ondata di scioperi di quelli storici parigini in cui si ferma un’intera nazione. E’ un posto in cui respiri l’arte, hai molte possibilità, senti che non tutto è chiuso e che c’è ancora qualcosa che può succedere, il contro è la tensione continua e costante».
Anche in Italia negli ultimi mesi sono cambiate tante cose, come lo vedi il nostro Paese da fuori?
«Quando sei fuori osservi l’Italia con più affetto, mentre quando sei dentro fai più fatica, un po’ come quando ti parlano male di qualcuno che ami e prendi le sue difese. Vivere in Francia lo reputo interessante perché, per certi versi, nella loro storia determinate situazioni le hanno affrontate con qualche decennio in anticipo, penso soprattutto all’integrazione. Il nostro è un momento molto duro, di grande confronto, avvicinandomi alla settimana pacifica voglio essere ottimista e pensare che la nostra società ne uscirà migliorata e rafforzata da tutto questo fermento».
Ecco la domanda che non ti aspetti, soprattutto in questo periodo non se ne può fare a meno. mancano ottanta giorni al Festival di Sanremo, per cui ti chiedo: c’è la possibilità di vederti in veste di autore o in gara?
«Come artista no, mentre come autore non saprei, nel senso che l’esperienza di due anni fa mi ha insegnato che tutto può succedere anche pochi giorni prima, quell’anno avevo scritto sia il brano di Enzo Avitabile che quello della coppia formata da Roby Facchinetti e Riccardo Fogli, in più mi sono ritrovato catapultato sul palco dell’Ariston in trio con Bungaro e Ornella Vanoni. Spesso le cose succedono per caso, ci sono diverse trattative, ma non è detto che si concretizzino, staremo a vedere».
Sempre a proposito di Sanremo, tu hai partecipato due volte in gara nel 2004 con “Solo un sogno” e in trio nel 2018 insieme a Bungaro e Ornella Vanoni con “Imparare ad amarsi“. Qual è il tuo pensiero sul Festival, una kermesse che sta per compiere settantanni e che rappresenta un pezzo di storia del nostro Paese?
«Come tutte le tradizioni così longeve, una volta superata quella fase in cui te ne vuoi liberare perché considerata una cosa vecchia, come forse è accaduto negli anni ’70, dopo la crisi ogni anno diventa sempre più forte, soprattutto oggi credo che i social network rafforzino molto il Festival, è un’occasione per sedersi sul divano ascoltare e criticare. D’altra parte, con la crisi del settore discografico, è diventata una specie di sbornia che dura il tempo di una settimana e quando ti risvegli sul tavolo c’è poco, ma questo è un po’ il problema di oggi, far rimanere la musica nel tempo. Quando cerco di spiegare ai francesi Sanremo non lo capiscono, è una tradizione molto nostra, sentita perché affonda le radici nella nostra cultura e nei nostri ricordi, una manifestazione alla quale anche io non posso non essere affezionato».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica in questi anni di attività?
«Essendo una persona ritrosa e inibita, nella musica e nella scrittura ho trovato il mio spazio di libertà, uno strumento, un metodo di accrescimento personale ed educativo, perché ho la netta sensazione che chi incontra uno strumento può riuscire ad incontrare anche la parte migliore di sé. Per questo motivo sono sempre felice quando vedo qualcuno che regala al figlio una chitarra, perché può intraprendere un viaggio che lo potrebbe accompagnare e arricchire per il resto della sua vita».
© foto di Daniele Coricciati
Nico Donvito
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