A tu per tu con il giovane cantautore, in uscita con il suo nuovo singolo intitolato “Lupo nelle favole“
Tempo di nuova musica per Paolo Lewis, romano di nascita e londinese di adozione, che nonostante la sua giovane età può vantare già numerose e prestigiose esperienze internazionali. “Lupo nelle favole“ è il titolo del suo nuovo singolo, un brano che racconta la sua storia e descrive il suo amore per la musica.
Ciao Paolo, benvenuto. Partiamo dal tuo nuovo singolo “Lupo nelle favole”, cosa racconta?
«”Lupo nelle Favole” è una canzone a cui sono molto legato. La favola è il sogno di ciascun essere umano, un sogno diverso per ognuno di noi. E per ogni sogno da inseguire, c’è sempre una sfida, un lato oscuro, un lupo da sconfiggere. Io infatti ho dedicato questo brano al mio lupo nelle favole, la parte marcia dell’industria musicale, ma mi piace pensare che ognuno possa immaginare aspetti diversi a seconda della propria vita».
Quali sensazioni e quali stati d’animo ti hanno accompagnato durante la composizione del brano?
«Tornato in Italia da Londra, a causa del lockdown, mi sono sentito un po’ perso, spaesato. Ho dovuto quasi ricominciare da zero dopo anni di gavetta e sacrifici lontano da casa. Ma scrivere in Italiano e soprattutto di un argomento del genere mi ha fatto sentire più forte, arrabbiato sì, ma con la consapevolezza di cosa dovevo sconfiggere. Trattare questo argomento mi ha regalato tanta lucidità e spero possa farlo anche a chi ascolta il pezzo».
C’è una frase che, secondo te, rappresenta e sintetizza al meglio il significato della canzone?
«C’è un verso che dice ‘Con una valigia e un biglietto Ryanair da Fiumicino son volato da te, e non te l’ho mai rinfacciato, ma per caso l’hai scordato tutto ciò che ho messo via solo per te’. Sappiamo tutti quanto sia difficile combattere e inseguire un sogno così grande e così lontano, ma vi prego non smettete mai di provarci. Date tutto, partite, cambiate vita, provatele tutte. Dovete essere una pietra in caduta libera, una valanga, non deve potervi fermare niente. Ma ricordate sempre da dove siete partiti, così quando guarderete dietro, vi sentirete sempre un passo avanti».
Dato il tema da te affrontato la domanda è d’obbligo: ti senti rappresentato dall’attuale settore discografico?
«Non credo si possa considerare tutta l’industria musicale nello stesso modo. Io personalmente ho avuto la possibilità di lavorare con persone fantastiche che mi hanno supportato e sopportato quanto più potevano. Ma allo stesso tempo durante il mio percorso ne ho incontrate altre il cui intento era quello di creare una moda temporanea, un prodotto di cui avevano bisogno. Fortunatamente ho sempre trovato la lucidità e il coraggio di dire di no. Non credo sia corretto fare di tutta l’erba un fascio, e sono felice di sapere che tra tanta sporcizia, ci sono anche tante cose belle, bisogna solo attendere e sudare».
Come descriveresti la tua visione di arte?
«L’arte è quella parte irrazionale del mondo che crea in esso un posto in cui evadere, scappare e perdersi. Ognuno di noi lo fa con l’arte che preferisce. Avete presente quando da bambini mamma vi sgridava e vi chiudevate in camera a piangere? Ecco quella camera era, in quel momento, il nostro posto sicuro, la nostra via di fuga. E da grandi l’arte diventa quella camera, quell’isola deserta in cui ripararsi da tutto ciò che ci circonda».
Quando e come hai incontrato la musica?
«Nel 2013 sono andato a vivere da solo negli Stati Uniti, dove in radio non passava altro che il primo album di Ed Sheeran. Era così semplice e così perfetto, che tornato a casa da un party, presi la chitarra e ci provai anche io. La sapevo suonare da un po’, male, ma il necessario. Da piccolo prendevo lezioni di pianoforte quindi avevo già un’impostazione musicale, ma vi giuro che scrivevo canzoni orrende, solo che mi faceva stare bene, e così non ho più smesso».
Quali artisti hanno influenzato e accompagnato il tuo percorso?
«Al liceo andavo matto per le band storiche, dai Pink Floyd ai Beatles, più tardi i Red Hot Chili Peppers, AC/DC e molti altri, ascoltavo di tutto. Poi con Eddie Vedder ho scoperto il vero cantautorato, e da lì sono impazzito per Jack Savoretti, James Bay, Lewis Capaldi, Ed Sheeran, e un’infinità di cantautori emergenti inglesi di cui, secondo me, presto sentiremo parlare».
Cosa ti rende orgoglioso del tuo percorso, delle scelte e dei sacrifici fatti finora?
«Non è stata una scelta facile. Per tanto tempo mi è pesato non aver detto ai miei genitori che non avrei seguito le orme di famiglia nel campo della medicina. Però sapevo che ci sarebbe stato un altro modo di renderli fieri. Dopo due anni che vivevo a Londra sono riuscito ad ottenere un headline show al Cargo, un locale molto importante. Così ho supplicato i miei genitori di venire a vedermi. Me li sono ritrovati tutti lì, eleganti, in un locale underground tra piercing, birre e gente che gridava. Ma i loro occhi erano lucidi, papà mi guardava in silenzio, e quello è il suo modo di commuoversi. In quel momento ho capito che li stavo rendendo orgogliosi. Ricordare quella scena mi ripagherà sempre di ogni sacrificio».
Per concludere, a chi si rivolge oggi la tua musica e a chi ti piacerebbe arrivare in futuro?
«Non credo dipenda da me decidere a chi rivolgere la mia musica, io la rivolgo al mondo, a chi in un momento di difficoltà non sa a cosa aggrapparsi, e potrebbe trovare conforto nelle mie parole. Tante volte ci troviamo in situazioni in cui pensiamo di essere soli, e invece non è così. Spero che le mie canzoni possano curare, aiutare, regalare quei tre minuti di spensieratezza e supporto a chi ne ha bisogno. Ho perso tanti amici che si sono tolti la vita durante l’Università. A Londra si vive una realtà molto diversa. Quindi sappiate che non siete soli. Spero che la mia musica possa aiutare tutte queste persone».
Nico Donvito
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