A tu per tu con il compositore romano, all’indomani del lancio della sua nuova fatica discografica
Si intitola “Little songs for big elevators” il nuovo disco del progetto musicale Papik, nato dall’idea del produttore Nerio Poggi. Un album contenente trenta tracce, impreziosite dalla presenza di numerosi artisti italiani e internazionali: da Sarah Jane Morris a Ronnie Jones, passando per Kenn Bailey, Anduze, Neja, Simona Bencini, Nadia Straccia, Alex Sammarini, Alfredo Malabello, Ida Landsberg, Marta Capponi, Andrea Meschini, Frankie Pearl, Sara Galimberti, Letizia Liberati, Alan Scaffardi, Ely Bruna, Francesca Gramegna, Dagmar Segbers, Erika Scherlin, Frankie Lovecchio e Walter Ricci.
Ciao Nerio, benvenuto su RecensiamoMusica, parto con il chiederti: cos’è Papik?
«Un progetto che raccoglie tanti musicisti che lavorano con me da diversi anni, con l’obiettivo di realizzare semplicemente buona musica e non necessariamente di genere, nel senso che non ci poniamo frontiere. In questo ultimo disco “Little songs for big elevators” abbiamo voluto continuare ad esplorare stili musicali differenti, mancano soltanto il metal, il liscio e la trap, per il resto c’è davvero di tutto!».
Come sei riuscito a mettere insieme tutti questi artisti e questi generi così diversi?
«Guarda, è più una questione organizzativa che artistica, non è facile incastrare gli impegni di tutti, anche perché molti musicisti provengono da tutto il mondo. A me piace molto coinvolgere, lo considero il segreto per rendere davvero piacevole il risultato finale di un disco. Trenta brani sono tanti, per renderlo fluido ci vogliono l’entusiasmo e la partecipazione di tutti, per far si che non ti stanchi mai».
Quali innovazioni che hai apportato rispetto ai tuoi precedenti lavori?
«Così come il precedente progetto, l’ho concepito più come una compilation con tanti artisti e un numero importante di brani. Questa è la principale innovazione, non avere limiti di espressività, non ne faccio una questione di genere perché, secondo me, esiste la musica buona e quella cattiva, qualunque stile può essere fatto bene o male, non ho preconcetti sotto questo punto di vista».
Tra le tracce presenti, a cosa si deve la scelta di “No doubts left” come singolo apripista?
«Sinceramente è stata una scelta della mia etichetta Irma Records, un lavoro che lascio fare a chi ha questo tipo di esperienza. Per un musicista le sue composizioni sono tutte uguali, come si suol dire “ogni scarrafone è bello a mamma soja” (ride, ndr). Indubbiamente è una bella scelta, anche perché la bravura di Walter Ricci è impressionante, un talento che non ha nulla da invidiare a nessuno e che spero arrivi presto al grande pubblico».
Tra i vari artisti internazionali presenti in questo lavoro, spicca il nome di Sarah Jane Morris. Com’è stato trovarsi a lavorare con la regina del soul-jazz?
«Avevo collaborato con lei già nel precedente disco, in questo caso interpretando una cover di Barry White. Questa volta abbiamo cercato di cucirle addosso un inedito, cosa non facile, ma il risultato è stato sorprendente, non poteva cantarla meglio di così, sono onorato della sua presenza».
Tantissime anche le presenze italiane, da Simona Bencini a Neja, passando per Sara Galimberti, Marta Capponi, Andrea Meschini, Letizia Liberati, Francesca Gramegna e tanti altri, a dimostrazione che il talento italiano non ha nulla da invidiare a quello di altri Paesi?
«Assolutamente sì, delle voci straordinarie. Siamo pieni di talento, ma quando sento certe proposte in televisione mi viene rabbia, perché non valorizzano la vera bellezza, la discografia oggi predilige altri canoni, dalla visibilità alla simpatia, fino all’estetica. I talent show non c’entrano molto con la vera musica, si preoccupano dell’audience e non prendono in considerazione le tantissime e valide proposte che sono tagliate fuori da questo meccanismo. Non fanno bene alla musica, ma nemmeno ai concorrenti che prendono parte a questo gioco, molti vanno in terapia, sono cose che purtroppo ormai si sanno. Se passi dalle stelle alle stalle in dieci minuti, il risultato è questo. E’ davvero un massacro».
In passato hai collaborato più volte con Mario Biondi, dopo tanti anni di interpretazione in lingua inglese, lo scorso febbraio ha debuttato con l’italiano a Sanremo con il brano “Rivederti”, che forse non è stato molto compreso. C’è una sorta di chiusura mentale nei confronti dello sperimentare la lingua italiana con generi di matrice statunitense o anglofona?
«Forse dipende dal genere, perché Elisa e Alexia al contrario vinsero il Festival. Probabilmente Mario ha scelto un brano poco immediato per una kermesse del genere, una canzone troppo sofisticata per quei palati. Apprezzo la scelta di portare in gara qualcosa di diverso, anche difficile, perché significa che ha voluto essere totalmente se stesso. E’ un artista che può permettersi questo e altro, lo conosco dai tempi in cui cantava anche in italiano, prima ancora di ottenere il grande successo a livello internazionale. E’ una cosa che ha sempre voluto, magari non aveva ancora trovato i brani per lui più adatti».
Se dovessi scegliere un’epoca del passato, quale decennio sarebbe più vicino al tuo modo di intendere la musica?
«Gli anni ’50, quando lo swing era diventato un po’ più orchestrale, mi piacerebbe anche respirare l’atmosfera bit inglese della fine degli anni ’60, ma non saprei dirti quale delle due epoche reputo musicalmente più interessante».
Per concludere, quale messaggio vorresti trasmettere al pubblico, oggi, attraverso la tua musica?
«La cosa più bella che mi è stata detta è che faccio “musica felice”, non necessariamente significa allegra, anzi, può essere anche malinconica, ma riuscire a trasmettere positività penso sia l’obiettivo di qualsiasi musicista».
Nico Donvito
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