A tu per tu con l’artista italo-nigeriano, in radio dal 18 dicembre con il singolo “Figli delle lacrime”
Tempo di nuova musica per Raphael Nkereuwem, meglio conosciuto semplicemente come Raphael, artista classe ’86 che ricordiamo per essere stato per tredici anni il frontman della reggae band degli Eazy Skankers. “Figli delle lacrime” è il singolo scelto per il suo ritorno discografico, realizzato in collaborazione con Zibba e Marco Rettani per l’etichetta Platonica, pezzo risultato tra i 69 finalisti di Sanremo Giovani (qui le nostre pagelle). In occasione del lancio radiofonico del brano, approfondiamo la conoscenza del talento savonese di origini nigeriane.
Ciao Raphael, partiamo da “Figli delle lacrime”, il tuo nuovo singolo, com’è nato e cosa rappresenta per te?
«Il mio nuovo singolo è nato in un momento molto particolare della mia vita e della mia carriera. Ho voluto mettermi in gioco, spinto dal bisogno di scrivere musica che non seguisse per forza un canone preciso. Per me rappresenta un nuovo punto di partenza, forte delle esperienze che mi hanno portato fin qui, pronto ad impararne ed a viverne di nuove».
Cosa ha ispirato il testo e a chi hai voluto dedicare questa canzone?
«Ho scritto questo brano di getto. Forse sarà il traguardo dei trent’anni che inevitabilmente porta a tirare le prime somme e a chiedersi che ne sarà del proprio futuro. In un momento così delicato per la società italiana non posso fare a meno di ricordare che l’emigrazione fa parte della storia della mia famiglia, quindi parte di me. Mia madre dalla Calabria alla Liguria a 5 anni, mio padre dalla Nigeria all’Italia negli anni ’70. Penso che la mia storia sia comune a molte altre. La dedico a chi ha origini umili. A chi non ha nessuno e non può permettersi troppi errori. A chi non si piange addosso e riesce a fare delle difficoltà punti di forza».
A livello musicale, invece, che tipo di sonorità hai scelto per mettere in risalto la tua vocalità e le parole della canzone?
«In questo brano in particolare ho abbracciato una sonorità Soul, che Zibba ha saputo trasportare ai nostri giorni facendo un gran lavoro di produzione sul pezzo. E’ una sorta di ponte che collega i suoni di ieri e di oggi».
Facciamo un salto indietro nel tempo, come e quando ti sei avvicinato alla musica?
«La musica ha sempre fatto parte della mia vita, dapprima nei dischi e nelle cassette di mio padre, che ascoltava di tutto, da Marley a Venditti. Poi nel 2002 a 15 anni la voglia di cantare e strimpellare la chitarra si è concretizzata formando la prima band con gli amici di sempre: gli Eazy Skankers».
Quali ascolti hanno ispirato e accompagnato il tuo percorso?
«Bob Marley sicuramente è stata la più forte influenza. Il reggae mi ha rapito con il suo messaggio di universalità, i suoi bassi potenti, e la storia Africana vissuta a migliaia di chilometri di distanza, come nel mio caso. Sono un avido ascoltatore ad ogni modo di un sacco di musica, da Natalino Otto a Bruno Mars passando per gli artisti della Motown o i Beatles, direi che sono musicalmente onnivoro».
Con quale spirito ti affacci al mercato e come valuti il livello generale dell’attuale settore discografico?
«Mi affaccio al mercato senza illusioni, ho solamente voglia di continuare a portare in giro la mia musica come ho sempre fatto. Il settore discografico al giorno d’oggi è viziato da sponsorizzazioni e l’algoritmo a volte conta più delle note musicali. Sono convinto però ci sia tanta bella musica la fuori. E’ solo più difficile trovarla, o meglio, bisogna spenderci un po’ di tempo…».
C’è un incontro che reputi fondamentale per la tua carriera?
«Fra i molti, citerò il primo: quello con Michele Redemagni, allora chitarrista di un gruppo ska-reggae savonese, i Sanapianta. Lo incontrai nell’estate del 2002 sull’autobus. Io tornavo da lavorare (avevo 15 anni e facevo la prima stagione estiva ai bagni) lui andava a fare le prove con la band. Mi avvicinai e gli chiesi consigli perché volevo farmi anche io i dreadlocks. Mi regalò il loro cd ed invitò ad assistere alle prove. Diventammo amici, mi fece conoscere tanti artisti anche al di fuori del reggae, e con loro calcai i primi palchi come ospite al di fuori della mia città. Fu il primo a prendermi sul serio quando dicevo di voler cantare, dandomi fiducia in me stesso. Non lo dimenticherò mai».
Sei nato a Savona, da padre nigeriano e mamma italiana. In cosa il nostro Paese eccelle rispetto alle altre realtà nel mondo e cosa, secondo te, dovremmo ancora imparare per migliorarci?
«Abbiamo un patrimonio culturale ed artistico che ci invidia il mondo intero. Una tradizione culinaria tra le più ammirate. Cosa dovremmo imparare per migliorarci? Ad esempio la tolleranza, il rispetto per il diverso o il meno fortunato. Viaggiare, in questo senso, mi ha aperto la mente».
Nico Donvito
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