Le canzoni che sono rimaste nel tempo nonostante non siano state estratte come singoli dai rispettivi album di provenienza. A cura di Marco Zollo
Benvenuti a “Ritrovamenti”, la rubrica dedicata alle canzoni che, pur non avendo rappresentato a livello promozionale un progetto discografico, hanno continuato a vivere nel cuore degli ascoltatori. Ogni settimana, Marco Zollo ci guiderà in un viaggio attraverso melodie e testi mai dimenticati, ma che meritano di essere riscoperti.
Queste perle musicali, raccontano spesso storie profonde e universali, e rappresentano sfaccettature meno conosciute degli artisti di riferimento, al punto da vivere una vita propria. In ogni puntata scopriremo insieme un pezzo del passato che, per qualche motivo, ha saputo sfidare il tempo e trovare una sua dimensione nel presente.
Ritrovamenti: spazio a “Buon anno” di Jovanotti
La colonna sonora di queste feste qui da noi si chiama Jovanotti. Avevamo scelto una sua collaborazione con Luca Carboni per il brano natalizio, e adesso per l’ultimo giorno del 2024 sono a proporvi “Buon anno”, traccia conclusiva dell’album “Lorenzo 1999 – Capo Horn”. “Buon anno fratello. Buon anno ai tuoi occhi, alle mani, alle braccia, ai polpacci, ai ginocchi. Buon anno ai tuoi piedi, alla spina dorsale, alla pelle, alle spalle, al tuo grande ideale”.
Non è una seduta di fisioterapia, e nemmeno un esercizio di stile. Ciò che fa la differenza in questa canzone è l’alternarsi di immagini quotidiane a concetti di spessore. Infatti è proprio quella parola, quell’“ideale”, che ci fa capire che c’è qualcosa di più rispetto ad un augurio di buona salute. Non è un elenco di semplici cose da fare, ma è piuttosto l’esaltazione di un rapporto di parentela, o di amicizia: il “fratello” a cui si riferisce il testo può essere benissimo uno slang giovanile per indicare proprio un caro amico, come fosse una lettera di vicinanza.
“Buon anno” è una traccia certamente minore rispetto a “Per te” o “Un raggio di sole”, evergreen appartenenti allo stesso progetto discografico. Ma fa parte in tutti i casi di un lavoro che in pochi mesi dall’uscita aveva già venduto oltre mezzo milione di copie, quindi è sicuramente molto nota ai fan dell’artista. Sulle piattaforme è stata inserita solo qualche anno fa, e ad oggi conta 75mila stream e 44mila view. Non un risultato trascurabile trattandosi di un brano pubblicato volutamente in sordina.
“Ti auguro pace, risate e fatica, trovare dei fiori nei campi d’ortica. Ti auguro viaggi in paesi lontani, lavori da compiere con le tue mani”. Jovanotti, l’avete capito, ha pensato davvero a tutto. E per tutto questo amore (la canzone si chiude così, con l’evocare tanto affetto e amore) si sente un accompagnamento strumentale scarno ma sufficiente. Un paio di chitarre, un’elettrica in primo piano e un’acustica a fare da riempitivo. Chitarre a cura di Michele Centonze, l’altro autore del brano. Sì, esatto. L’hanno scritto in due.
Solo che “Buon anno” si porta con sé anche particolarità scomode che traspaiono sia dalla musica sia dal testo. Perché questa canzone, essendo asciutta e senza fronzoli, non vuole essere unicamente un’incarnazione di valori a senso unico, ma pure la sincerità di quando le cose non è detto che vadano sempre bene. Sarà scaramanzia o contraltare? Non è dato saperlo con certezza. Resta il fatto che nessuno ha la sfera magica tra le mani, e allora Jovanotti scrive anche “Buon anno davvero. Spero sia bello, sia bello leggero.” E fin qui tutto OK. “Che ti porti scompiglio e progetti sballati”. Così, alll’improvviso. Aspettate, riprendiamoci un attimo. Ma attenzione che non è finita.
Infatti, non contenti, attraverso questo strambo arrangiamento Jovanotti e Centonze sferrano il colpo di grazia, in due modi diametralmente opposti: da una parte, a metà canzone entra un ensamble di archi che suona un inserto di musica classica, cosa che mi ha ricordato un vecchio espediente di Battiato in “Voglio vederti danzare”. E dall’altra, ad inizio e fine composizione, l’utilizzo di suoni distorti provenienti con tutta probabilità da vari amplificatori per chitarra.
E qua la cosa si fa interessante: l’intento di voler creare conforto e spaesamento, gioia e malumore. Ma non per sadismo, no. Io ci vedrei di più la volontà di rappresentare l’avvenire con il suo bello e contemporaneamente con quel senso di smarrimento. Una duplice rappresentazione che in fondo è solamente la vita dell’essere umano. L’importante è non demoralizzarsi, non illudersi. Ma vivere il futuro come un presente in evoluzione.