venerdì 10 Gennaio 2025

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“Sanremo Story”, dal Festival all’EuroFestival

Sanremo Story: la rubrica che ripercorre le tappe fondamentali del Festival della canzone italiana, attraverso aneddoti e approfondimenti. A cura di Nico Donvito

Per molti il Festival di Sanremo è quell’evento televisivo che catalizza davanti allo schermo per una settimana all’anno, uno spettacolo colorato, uno psicodramma tragicomico collettivo, un carrozzone fiorito stracolmo di cantanti, presentatori e vallette. Negli anni, ne abbiamo lette e sentite parecchie di definizioni, tutte profondamente vere, ma nessuna realmente corretta. Sanremo EuroFestival

Per dare una risposta allo slogan “Perché Sanremo è Sanremo”, è necessario riscoprire la storia di questo grande contenitore che nel tempo si è evoluto, ma senza perdere il proprio spirito. La verità è che il Festival è un vero e proprio fenomeno di costume, la favola musicale più bella di sempre, lo specchio canterino del nostro Paese. Con la sua liturgia, la kermesse non è mai riuscita a mettere d’accordo ammiratori e detrattori, forse in questo alberga la vera fonte del suo duraturo consenso. La rubrica “Sanremo Story” si pone l’obiettivo di raccontare tutto questo e molto altro ancora.

“Sanremo Story”, dal Festival all’EuroFestival

L’EuroFestival, o come lo conosciamo oggi Eurovision Song Contest, nacque ufficialmente nel 1955 dall’idea diun italiano: Sergio Pugliese, giornalista e drammaturgo, che suggerì la realizzazione di un concorso canoro europeo liberamente ispirato al Festival di Sanremo, kermesse che nel nostro Paese aveva già ottenuto ottimi consensi in soli cinque anni.

L’intento era quello di unire culturalmente i vari Stati d’Europa reduci dalla seconda guerra mondiale, promuovendo l’utilizzo e la diffusione della neonata televisione in tutto il continente. L’intuizione venne particolarmente apprezzata dall’UER, associazione delle emittenti radiotelevisive pubbliche europee, che approvò la messa in onda dell’evento a partire dall’anno successivo.

La prova generale si svolse a Lugano il 24 maggio del 1956 e vide trionfare la Svizzera padrona di casa con il motivo “Refrain“, cantato da Lys Assia. Presero parte due portavoce per ciascuna delegazione, con l’Italia rappresentata dalle prime due canzoni classificate in Riviera, ovvero “Aprite le finestre” di Franca Raimondi e “Amami se vuoi” di Tonina Torrielli. L’anno seguente toccò a Nunzio Gallo rendere onore al nostro tricolore con “Corde della mia chitarra”, ma fu la terza prova del 1958 a regalarci un po’ più di soddisfazione, grazie alla medaglia di bronzo conquistata da “Nel blu dipinto di blu” di Domenico Modugno, cui non riuscì di replicare la bella vittoria sanremese.

Nell’ultima edizione del decennio tornò in nostra rappresentanza Mr. Volare con “Piove (ciao ciao bambina)”, ma l’Europa nuovamente non ci premiò. Nonostante i favori della vigilia e la grande popolarità conseguita in giro per il mondo, il cantautore pugliese si piazzò al sesto posto della classifica finale. Le sue intuizioni, seppur inizialmente poco comprese, gettarono le basi per il profondo rinnovamento che, di lì a poco, sostituì lo spirito conservatore che aveva caratterizzato quei primi anni di rodaggio.

Negli anni successivi, in difesa del bel canto all’italiana scesero in campo: Renato Rascel con “Romantica”, Betty Curtis con “Al di là”, Claudio Villa con “Addio addio” ed Emilio Pericoli con “Una per tutte”. Dopo un decennio di magre soddisfazioni, il 21 marzo 1964 il nostro Paese si aggiudicò il suo primo titolo grazie a “Non ho l’età (per amarti)” della sedicenne Gigliola Cinquetti, la più giovane a figurare nell’albo d’oro della manifestazione.

In quanto Paese ospitante, la Rai scelse Napoli come location della decima edizione dell’Eurofestival, schierando Bobby Solo che, con la sua “Se piangi se ridi”, non andò oltre la quinta posizione. Andò addirittura peggio l’anno seguente a Domenico Modugno, alla sua terza partecipazione con “Dio come ti amo”. Zero punti assegnati per lui e un amaro, amarissimo, ultimo posto in classifica. Fu il peggior piazzamento del nostro Paese nella storia della rassegna.

Si decise di cambiare formula e strategia, proponendo una canzone diversa da quella che aveva trionfato a Sanremo. Si susseguirono così le partecipazioni di Claudio Villa con “Non andare più lontano”, Sergio Endrigo con “Marianne” e Iva Zanicchi con “Due grosse lacrime bianche”, che non raccolsero comunque grandi risultati. Successivamente si preferì puntare sul vivaio di Canzonissima, scegliendo così “Occhi di ragazza” di Gianni Morandi nel 1970 e nel 1971 “L’amore è un attimo” di Massimo Ranieri. Nulla di fatto.

Si ritentò quindi con il vincitore del Festival, ovvero Nicola di Bari con “I giorni dell’arcobaleno”, per poi invertire di nuovo la rotta nel 1973 con “Chi sarà” con te di Massimo Ranieri, nel 1974 con “Sì” di Gigliola Cinquetti e nel 1975 con “Era” di Wess e Dori Ghezzi. Da quel momento in poi la scelta del rappresentante divenne rigorosamente interna, indipendente dalle dinamiche di qualsivoglia kermesse. Si avvicendarono così: Al Bano e Romina Power con “We’ll live it all again”, Mia Martini con “Libera”, i Ricchi e Poveri con “Questo amore” e i Matia Bazar con “Raggio di Luna”.

Il decennio successivo fu caratterizzato da una sorta di tira e molla tipicamente italiano: il nostro Paese disertò le edizioni del 1981, del 1982 e del 1986, per il resto si limitò a sottoporre proposte poco incisive, da “Non so che darei” di Alan Sorrenti a “Per Lucia” di Riccardo Fogli, passando per “Magic oh Magic” di Al Bano e Romina Power, “Ti scrivo (vivo)” di Luca Barbarossa e “Avrei voluto” della coppia Oxa-Leali. Uniche due parentesi positive furono il quinto posto nel 1984 di Alice e Franco Battiato con “I treni di Tozeur” e il terzo posto nel 1987 di Raf e Umberto Tozzi con “Gente di mare”.

La trentacinquesima edizione della kermesse ebbe luogo a Zagabria e fu fortemente influenzata dai fatti di Berlino e dalla caduta del Muro, avvenuta sei mesi prima. A ventisei anni di distanza dalla precedente unica vittoria, l’Italia tornò sul gradino più alto del podio con Toto Cutugno e la sua “Insieme: 1992”. Il cantautore di origini siciliane, reduce dalla quinta medaglia d’argento consecutiva al Festival di Sanremo, prese parte alla rassegna grazie alla rinuncia dei Pooh, regalandoci il sogno di ritrovarci in vetta all’Europa, proprio nell’anno in cui nel nostro nel Paese si sarebbero disputati i mondiali di calcio. Laddove non arrivò lo sport, questa volta, giunse la musica per mezzo di una bella canzone italiana, forse, non abbastanza ricordata.

La manifestazione tornò qui da noi per la seconda volta, ospitata nella città di Roma, dopo la sfumata candidatura di Sanremo. L’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e lo scoppio della guerra del Golfo indussero la Rai a preferire la Capitale e i grandi spazi offerti dagli studi di Cinecittà al piccolo comune ligure, al fine di garantire una maggior sicurezza per le delegazioni straniere. Questo causò ritardi e rilevanti difficoltà organizzative, che interferirono qualitativamente sul risultato finale. La conduzione venne affidata ai nostri due campioni in carica, Toto Cutugno e Gigliola Cinquetti, mentre per la gara fu scelto Peppino Di Capri con “Comme è ddoce ‘o mare”, che ottenne un dignitoso settimo posto.

Seguirono le partecipazioni di Mia Martini nel 1992 con “Rapsodia” e di Enrico Ruggeri nel 1993 con “Sole d’Europa”, per poi arrivare al triennio di pausa causato dello scarso interesse del pubblico italiano nei confronti dell’evento. Quella del 1997 fu l’ultima edizione del secolo cui prese parte il nostro Paese, nonostante l’ottimo quarto posto ottenuto dai Jalisse con “Fiumi di parole”. Dall’anno seguente iniziò il “digiuno” dell’Italia, che durò per ben tredici anni.

Durante questa lunga assenza, l’Eurovision Song Contest ha subito numerose trasformazioni, fino a diventare lo spettacolo che conosciamo oggi. L’Italia è tornata in gara nel 2011, in un contesto completamente differente da quello che aveva lasciato. Tanto per cominciare era stato introdotto il televoto e un nuovo sistema di giurie, ed inoltre le basi registrate avevano preso gradualmente il posto dell’orchestra, un po’ il contrario di quello che era accaduto invece al Festival che, con il ritorno dei musicisti dal vivo, aveva ritrovato una nuova linfa e un tocco di originalità in più.

Il numero delle nazioni partecipanti era aumentato esponenzialmente, al punto che negli anni erano state introdotte delle semifinali di qualificazione. L’Italia è rientrata in corsa come membro dei “Big Five”, accedendo di diritto alla serata finale in qualità di Paese fondatore, aggiungendosi a Inghilterra, Spagna, Francia e Germania. A rappresentarci in questo ritorno è stato il vincitore della categoria Nuove Proposte dell’ultimo Sanremo, ovvero Raphael Gualazzi con “Follia d’amore”, che ha ottenuto un gratificante secondo posto. Successivamente si è preferito puntare sulle scelte interne, che hanno portato alle partecipazioni di Nina Zilli con “L’amore è femmina (Out of love)”, di Marco Mengoni con “L’essenziale” e di Emma con “La mia città”.

A partire dal 2015 è entrata in vigore la regola che permetteva al vincitore della kermesse ligure di accedere di diritto come nostro rappresentante. Non poteva capitare occasione migliore nelle mani di Piero Barone, Gianluca Ginoble e Ignazio Boschetto, i tre ragazzi de Il Volo, già affini ad incontrare i gusti del pubblico internazionale. La loro “Grande amore” ha convinto ma non vinto, ottenendo comunque un buon terzo posto.

L’anno seguente gli Stadio, rinunciando all’opportunità, hanno permesso a Francesca Michielin di proporre la sua “Nessun grado di separazione”, ribattezzata per l’occasione “No degree of separation”. La giovane cantante non è andata oltre la metà della classifica. È iniziata così la lenta e graduale risalita del nostro Paese, con un susseguirsi di risultati positivi, con un trend decisamente crescente. Si è passati dal sesto posto di Francesco Gabbani con “Occidentali’s karma” al quinto della coppia Meta-Moro con “Non mi avete fatto niente”, fino alla sorprendente medaglia d’argento di Mahmood con “Soldi”.

Nel 2020, anno del Covid, la competizione è stata cancellata. Al suo posto è andata in scena “Europe Shine a Light”, una serata-evento volta a riaccendere l’attenzione sulla musica, senza gara e senza esibizioni dal vivo, ma con lo stesso spirito di unione che ha sempre contraddistinto la manifestazione. In nostra rappresentanza ha partecipato Diodato, protagonista di una memorabile performance all’Arena di Verona con l’evocativa “Fai rumore”.

L’anno seguente è tornata la gara e una parvenza di normalità, seppur con qualche compromesso dettato dalle regole e dal buon senso. «Partecipiamo all’Eurovision con l’intento di portare la nostra musica al pubblico di altri Paesi, con tanta voglia di fare e di ampliare i nostri orizzonti. Abbiamo sempre sognato in grande e continueremo a farlo»: con queste parole, e con l’entusiasmo tipico dei vent’anni, i Måneskin si sono presentati a Rotterdam per la sessantacinquesima edizione della rassegna, con un vero e proprio manifesto generazionale, dal titolo “Zitti e buoni”.

Nonostante il consueto e cauto «…non succede, ma se succede…» della vigilia, i quattro ragazzi di Monteverde hanno regalato al nostro Paese la vittoria più bella, tanto inaspettata quanto desiderata, sbaragliando la concorrenza dopo ben trentuno anni di astinenza. Una vera e propria rivoluzione glam-rock, di quelle che in molti non si sarebbero mai aspettati dalla patria del bel canto. Il fattore- sorpresa e il fattore-credibilità hanno giocato entrambi a nostro favore, al grido di un inedito «rock ‘n‘ roll never dies».

Dopo ben sessantacinque anni, l’Italia era tornata ad essere un modello di riferimento per l’Europa, l’occasione ideale per portare al di fuori dei nostri confini quel significativo ricambio che aveva aperto le porte a nuove correnti musicali. Decisiva la scelta dei Måneskin di cantare totalmente in italiano, per rendere ancora più distinguibile e originale la proposta. La band ha messo d’accordo le giurie, stravincendo al televoto. Quattro amici conosciuti tra i banchi di scuola, cresciuti suonando insieme, dalle vie di Roma ai sottoscala dei club di periferia. Una ventata di novità, dunque, con il trionfo di una musica che non scende a compromessi e non strizza l’occhio alla rime baciate, in grado di abbattere i cliché nazionalpopolari e di andare oltre all’immaginario collettivo internazionale.

«I Måneskin hanno portato spavalderia, fiducia e qualità da star» ha titolato la BBC, «gli italiani hanno illuminato il palco con il loro rock-punk-funk a torso nudo, cantando nella loro lingua madre, in una finale da brivido» ha incalzato il Guardian. I media di tutto il mondo hanno commentato l’impresa italiana, incensando i nostri rappresentanti. Una doppia soddisfazione, considerato quanto si è dovuto faticare per poter proporre qualcosa di diverso da ciò che ci si aspettava solitamente da noi.

Sulla stessa falsariga, è proseguito il nostro percorso all’Eurovision Song Contest, ottenendo sempre, almeno finora, piazzamenti in top ten. Nel 2022, nell’edizione casalinga organizzata a Torino, Mahmood e Blanco si sono classificati sesti con la loro “Brividi”, mentre Marco Mengoni si piazza al quarto posto con “Due vite” nel 2023 e Angelina Mango è arrivata settima con “La noia” nel 2024. Chi proseguirà la tradizione rappresentando l’Italia nel 2025?