A tu per tu con il giovane cantautore toscano, in uscita con il suo nuovo singolo intitolato “Non siamo al centro del mondo“
A sei mesi di distanza dalla nostra precedente chiacchierata, ritroviamo con piacere Francesco Sgrò, meglio noto semplicemente con lo pseudonimo di Sgrò, in occasione dell’uscita del suo nuovo singolo “Non siamo al centro del mondo” feat. Fanfara Station, disponibile a partire scorso 15 luglio.
Ciao Francesco, bentrovato. Partiamo da “Non siamo al centro del mondo”, come sono nati il brano e l’incontro con i Fanfara Station?
«La prima cosa a nascere di “Non siamo al centro del mondo” è stato il ritornello, del quale musica e testo sono nati insieme. All’inizio lo cantavo in prima persona, era infatti “non sono al centro del mondo”. Poi, però, registrandomi e risentendomi, ho subito avvertito che la prima persona non dava aperture, non aveva potenza, era troppo schiacciata su di sé, così ho usato il plurale ed è stato come spalancare una finestra. Finalmente entrava la luce del mondo.
Emotivamente il ritornello nasce da un sentimento molto forte di rifiuto verso ogni forma di autonarrazione assolutoria. Nel periodo in cui l’ho scritto avevo una gran voglia di smentire tutte le sicurezze acquisite. Avevo voglia di contaminarmi con qualcosa di diverso, di andare alla scoperta di paesaggi nuovi. Ed è qui che, una volta sentita la canzone, entra in campo Andrea Ciacchini, produttore artistico del mondo musicale di Sgrò fin da “Macedonia”, il mio primo disco. È stato Andrea infatti a farmi ascoltare i Fanfara Station e a immaginare questo possibile incontro».
Quanto conta la contaminazione nella tua musica in generale e quanto ha contato per questo pezzo?
«La contaminazione è alla base di tutto. Richiedo contaminazione da ogni cosa, anche dalle amicizie, dalle relazioni, anche dalle parole che leggo o che ascolto. Pretendo contaminazione da me e dagli altri. Anche nel primo disco ho cercato di contaminarmi con mondi sonori molto differenti, penso alle batterie e alle ritmiche di Stefano Tamborrino. “Non siamo al centro del mondo” vive di contaminazione».
Cosa ti affascina di preciso della world music?
«Le timbriche degli strumenti, la loro voce. Per me, occidentale in tutto e per tutto, quei colori sono i colori del viaggio, dell’esplorazione, della scoperta».
Che ruolo gioca la musica nel tuo quotidiano?
«La musica non è neanche più musica, cioè non è una categoria, ma ingloba tutto, è l’insieme più ampio che racchiude tutto quello che faccio. Non è la musica a fare parte del mio quotidiano, ma è il quotidiano che fa parte della musica. È lei a farmi avere un posto nel mondo. Se la perdo, perdo l’indirizzo di casa, ma soprattutto perdo il nome, l’identità».
A livello di ascolti, tendi a cibarti di un genere in particolare oppure ti reputi piuttosto onnivoro?
«Non ho mai capito quella frase che si legge e si sente spesso per cui chi risponde che ascolta di tutto è uno che non capisce di musica. Per uno che ama la musica è normale e sano ascoltare di tutto. Restare fedeli a un genere può significare masturbarsi, cioè tentare di fare a meno dell’altro rinchiudendosi in un ideale protetto dagli attacchi esterni. La fedeltà, in musica, non mi sembra un valore, perlomeno per me, e penso anche per chiunque faccia musica. Il tradimento, a livello di ascolto musicale, è un’esperienza che spiazza, ma fortifica. Io per esempio ascolto molta musica cosiddetta classica e molto rap. Ne ho proprio bisogno».
Qual è la lezione più importante che senti di aver tratto dalla musica fino ad oggi?
«Che solo se si nasce si può crescere. Cioè, che solo se si rende pubblico un proprio lavoro artistico, condividendolo con gli altri, si può pensare di maturare e di migliorare. Perché pubblicare è uscire allo scoperto, è vedersi da fuori, nei pregi e nei difetti».
Nico Donvito
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