A tu per tu con il cantautore lombardo, al suo ritorno discografico con il nuovo singolo “Ovunque“
Tempo di nuova musica per Simone Tomassini, artista che proprio quest’anno festeggia quindici anni dal suo debutto avvenuto sul palco dell’Artiston di Sanremo 2004, in gara con “E’ stato tanto tempo fa”. Lanciato dalla “Bollicine”, storica etichetta di Vasco Rossi, incide una serie fortunata di brani (da “Giorni” a “Il mondo che non c’è”, passando per “Ci sarà il sole”, “Quando sei ragazzo”, “Abito lei”, “Fatto di cartone”, “Ho scritto una canzone”, “Barcollo ma non mollo”) fino al nuovo singolo “Ovunque”, disponibile in radio e sulle piattaforme digitali dallo scorso 27 settembre.
Ciao Simone, benvenuto su RecensiamoMusica. Partiamo da “Ovunque”, il singolo che segna il tuo ritorno discografico, com’è nato?
«Il brano è nato da un’idea di Andrea Bonomo ed Emiliano Bassi, dopo aver ascoltato questa loro chicca me ne sono subito innamorato e abbiamo iniziato a lavorarci insieme, l’abbiamo ultimata insieme e cucita addosso alla mia vocalità, interpretandola “alla Simone”. E’ una delle poche canzoni del mio repertorio che mi vedono collaborare con altri autori, di solito scrivo testo e musica da solo, raramente ho composto in compagnia, era accaduto soltanto per “Giorni” che vantava la firma di Vasco Rossi, che non ha bisogno di certo di presentazioni, e per “Abito lei” con La Pina. “Ovunque” è un pezzo costruito in maniera molto precisa, perché quando collabori con songwriter di questo calibro, ti rendi conto di quanto siano dotati di capacità artistiche non indifferenti».
Non sei cambiato di una virgola e questo è un complimento, soprattutto in un’epoca di fuggi fuggi generale dove si inseguono tendenze e si cavalcano mode. Qual è stato il tuo ragionamento a riguardo? Cosa ti ha spinto a voler preservare la tua identità in questa giungla di cose tutte uguali?
«Sono sempre stato contro le mode, nel senso che a volte mi piacciono, in genere le capisco e le rispetto, ma non riesco a seguirle, perché penso che se uno nasce tondo non può diventare quadro. Farei ridere se mi mettessi a fare trap, avere la possibilità di esprimermi in una prateria per me familiare è fondamentale. Io non voglio essere qualcun altro, sono cresciuto ascoltando i Deep Purple, i Doors, i Led Zeppelin, provengo da quel mondo lì, non posso diventare un’altra roba. Capisco che sia necessario aprirsi a nuovi orizzonti, sforzarsi di trovare altri modi per vedere le cose, allargare le vedute, ma per migliorarsi e non snaturarsi. Vasco mi ha sempre detto: “scrivi le canzoni come se le dovessi ricantare anche quando hai settant’anni”, di questo consiglio ne ho fatto tesoro, cercando di fare pezzi che possano essere sempre senza tempo».
Facciamo un salto indietro nel tempo, quando e come è scoppiata la tua passione per la musica?
«Ero piccolo, mi ricordo che mio nonno Felice suonava sempre l’armonica a bocca, mi faceva le sigle dei cartoni animati, da “Dolce Remì” a “L’ape Maia”. Poi, crescendo, ho approfondito gli studi, ho frequentato il conservatorio e proseguito in maniera alternativa, ho fatto l’accademia da Tullio De Piscopo, la prima persona che ha creduto in me e, pensa, mi ha fatto iscrivere alla Siae. Da lì è partita la mia idea di autore, avevo quattordici anni, fino a quel momento non ci avevo nemmeno mai pensato. All’epoca c’era poca cultura tra i ragazzini, ma tanta curiosità, credo che oggi si siano completamente capovolti questi due fattori».
Una figura importante per il tuo percorso è stato Enrico Rovelli, un pezzo di storia della musica leggera italiana. Com’è avvenuto il vostro incontro?
«Enrico è una delle persone che più amo e stimo, perché ci ha sempre messo la faccia e non ha mai delegato nessuno al suo posto. Per me è un grande punto di riferimento, un faro importante nella mia vita, un papà acquisito. Pensa che nello stesso periodo io ho perso mio padre e lui suo figlio, ci uniscono tante cose, siamo davvero legati da un affetto immenso».
Il 2004 è un anno da incorniciare: debutti a Sanremo con “E’ stato tanto tempo fa”, apri tutti i concerti del “Buoni e Cattivi Tour” di Vasco e pubblichi il tuo album d’esordio “Giorni”. Cosa ricordi di quel periodo?
«Ero molto frastornato, immagina un ragazzino della provincia di Como che si è ritrovato catapultato sul palco più importante d’Italia, l’Ariston di Sanremo, con una canzone che è stata sin da subito molto apprezzata dal pubblico. Pensa che il singolo di “E’ stato tanto tempo fa” ha venduto in tutto 450.000 copie, numeri impossibili per i tempi di oggi. Successivamente è arrivato “Il mondo che non c’è”, brano che è partito con una rotazione radiofonica incredibile, lo passavano di continuo. Ricordo che in quel periodo, vista la sovraesposizione, avevo cominciato a covare dentro di me una sorta di rifiuto nei confronti di Simone come artista, perché forse era arrivato un po’ tutto all’improvviso, al punto che per certi versi mi sembrava di vivere una violenza. All’epoca meno cose si sapevano di un cantante e più era figo, oggi come oggi è l’esatto opposto, non c’è più spazio per la curiosità, con i social si sa tutto di tutti».
L’anno seguente partecipi a Music Farm, cosa ti ha spinto a prendere parte a questa trasmissione? E’ un’esperienza che rifaresti?
«Innanzitutto perché mi ha voluto Simona Ventura, all’epoca eravamo molto amici, lei aveva condotto il Festival l’anno precedente. Uno dei ragionamenti che io e il manager avevamo fatto riguardava il fatto che il pubblico non sapesse bene che faccia avessi, conosceva le canzoni perché le ascoltava in radio ma, a parte Sanremo, non avevo fatto chissà quali partecipazioni televisive. Col senno di poi lo rifarei, per il semplice motivo che non ho rimpianti o rimorsi nella vita in generale, se faccio una cosa è perché sono davvero convinto».
A proposito di programmi di questo genere, hai seguito “Ora o mai più”? Parteciperesti?
«A parte il titolo, “Ora o mai più” la trovo una trasmissione molto interessante, in realtà non me l’hanno mai proposta, ma se dovessero farlo la valuterò. Mi piace perché si parla di musica e della carriera di un artista in maniera rispettosa. Poi, per carità, io faccio il cantante da vent’anni a prescindere dal fatto che vada o meno in televisione. Ci sono programmi che non farei mai, mi riferisco in particolar modo ai reality show, situazioni in cui mi troverei sicuramente malissimo».
Quale credi sia il brano che ti rappresenta di più? Non dico quello a cui sei più legato perché immagino sia impossibile, ma quello in cui ti identifichi maggiormente
«Credo “Barcollo ma non mollo”, uno dei miei ultimi brani che ho pubblicato nel 2011. Questo pezzo è stato un po’ la mia salvezza, venivo da un periodo di certo non facile, avevo da poco perso mio papà, ero tornato dopo un lungo viaggio negli Stati Uniti, non ne volevo più sapere della discografia, avevo già richiesto la green card per trasferirmi in America, perché volevo starmene lì. Volevo andare via, suonare per strada, fare quello che mi piaceva, è stato un momento veramente difficile, sia questo brano che “Ho scritto una canzone” mi hanno salvato la vita».
Viceversa, c’è una canzone non tua che senti particolarmente e che “ruberesti” ad un tuo collega?
«Ci sono una serie di canzoni che mi hanno accompagnato nella mia adolescenza, tra tutte ti direi “Gli autobus di notte” di Luca Carboni. Lo considero un brano inarrivabile, sia a livello di costruzione melodica che di struttura del testo, credo che sia uno dei pezzi più belli che siano stati scritti, insieme a “Ci vorrebbe il mare” di Marco Masini e “Anna e Marco” di Lucio Dalla. Al di là dell’animo rock che da sempre mi contraddistingue, riconosco che questi siano dei grandissimi capolavori, al punto che mi viene la pelle d’oca ogni volta che li ascolto».
C’è un brano del tuo secondo album che io reputo un capolavoro, si chiama “Abito lei”. Mi racconti com’è nato?
«Io e La Pina ci sentivamo spesso di notte, ci capitava di passare le ore a chiacchierare, anche del nulla. Una sera ero in macchina, non avevo voglia di tornare a casa, lei mi disse di fermarmi e di prendere la chitarra, così ha iniziato a dettarmi delle frasi e il pezzo è nato così, non abbiamo cambiato una virgola. L’ho inciso e devo dirti che, fortunatamente, è diventato uno dei brani più apprezzati del mio repertorio, anche se non è uscito come singolo, i discografici avevano optato per “Quando sei ragazzo”, perché forse funzionava di più in radio e proseguiva il discorso dei pezzi precedenti».
Sono passati quindici anni dal tuo debutto, lungo il tuo percorso hai sempre continuato a proporre bella musica, dall’esordio sul palco dell’Ariston sino ad oggi. Nonostante questo l’attenzione attorno al tuo progetto è andata a scemarsi, anche perché nel frattempo (per citare una tua canzone) la discografia è diventata “Il mondo che non c’è”. Cosa è successo esattamente?
«Per quanto mi riguarda, credo di non essere poi così interessante mediaticamente parlando, forse è stato proprio questo che mi ha permesso di salvarmi, perché non sono Achille Lauro, con tutto il rispetto per lui che stimo, anzi considero “C’est la vie” come una delle canzoni più belle degli ultimi mesi. Non sono un personaggio e, ti dirò di più, non mi interessa nemmeno esserlo. Negli anni, secondo me, è cambiato un po’ tutto il sistema, l’apparenza è diventata più importante della sostanza. Tutto quello che per anni un artista è riuscito a costruire con la musica, la credibilità che è riuscito a mettere in piedi canzone dopo canzone, conta molto meno del gossip o delle notizie di life style».
Per concludere, visto il titolo del singolo questa domanda te la sto servendo su un piatto d’argento: dove e a chi desideri arrivare attraverso la tua musica?
«Mah, da qualche parte (ride, ndr), ovviamente “Ovunque”!».
Nico Donvito
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