La coerenza, l’amore e il rispetto per l’arte, viaggio nel mondo e nel cuore dell’interprete romana
Ci sono incontri che cerchi da tempo e che quando arrivano si rivelano intensi e speciali. Sul fatto che Tosca fosse una grande artista non ho mai nutrito alcun dubbio, il suo percorso ne rappresenta una palese e fedele testimonianza, la sua partecipazione a Sanremo 2020, con la meravigliosa “Ho amato tutto”, una piacevole conferma. Poi, tutto quello che ne consegue: il repack dell’album “Morbeza”, le due Targhe Tenco, il Nastro D’argento come “Protagonista dell’anno” per la sua perfomance nel documentario “Il suono della voce”. Insomma, un momento d’oro, degno risultato di tanti anni di ricerca, di dedizione e di lavoro.
Ciao Tiziana, benvenuta. Partiamo da questo 2020 che abbiamo appena messo alle spalle, un anno per te magico, ma per tutti quanti noi piuttosto tragico. Tante belle soddisfazioni, da sfondo questa orribile pandemia. Immagino che sia stata per te un’intensa altalena di emozioni…
«E’ stato tragico per tutti. Per quanto mi riguarda diciamo che era iniziato bene, perchè ho vissuto il ritorno a Sanremo come una bellissima opportunità, innanzitutto per far conoscere tutto quello che ho fatto in questi anni. Qualsiasi fosse stato il risultato per me era già una gioia essere lì, poter cantare un pezzo che mi rappresentava in toto. Quello che è arrivato dopo è stato un abbraccio incredibile da parte del pubblico, in barba a tutti quelli che dicono che determinate canzoni non esistono più, ai chirurghi della melodia e della parola, alla scienza infusa della costruzione a tavolino. Io sono ancora un’artigiana, convinta che tutto debba scaturire da un’emozione, l’onda naturale che porta a costruire qualsiasi progetto. Ecco, ultimamente si parla più di prodotti che di progetti».
Diciamo pure che quando viene data la possibilità ad un certo tipo di musica di essere rappresentata, il pubblico apprezza e premia questa volontà, questo coraggio…
«E questo la dice lunga sul fatto che, magari, quelli che sono chiusi nei palazzi, farebbero bene a scendere per strada. Alla fine, a forza di stare dietro ai numeri, si entra in logiche competitive, rischiando di distruggere intere generazioni di artisti. Io la chiamo dittatura musicale, un fardello che ci portiamo dietro da tempo, perchè non lasciamo esprimere i giovani, ma li continuiamo a scagliare l’uno contro l’altro. Di conseguenza facciamo del male anche a noi stessi, perchè moltissimi artisti cambiano strada. Stiamo parlando di politiche culturali terrificanti, politiche televisive terrificanti, che ragionano come se non ci fosse un domani. Questo, sai, per salvare il momento va anche bene, però è abbastanza ingiusto nei confronti delle nuove generazioni. Dirigendo l’Officina Pasolini, di ragazzi ne vedo tantissimi, mi ritengo una loro amica, una loro fan, perchè sono belli e sono puliti. Sono stati in grado di smontare tutto il discorso legato alle raccomandazioni, di cui noi eravamo assolutamente vittime. Il mio invito è quello di non accontentarsi, perchè c’è tanto altro in giro e arriverà la resa dei conti, a mio avviso».
Cosa non ti piace di preciso di questo modus operandi?
«Io non ce l’ho con i talent, di per sé la parola stessa richiama al nobile intento di ricercare il talento. Il problema è lo show, perchè quello porta a ricercare la superficie del talento, uno strumento volto a far arricchire le produzioni televisive e le case discografiche, non i ragazzi che vi prendono parte. Se questo contenitore venisse usato per far conoscere giovani artisti, come accade in tante situazioni all’estero, sarebbe molto diverso. In Portogallo, in Francia, in Brasile, in Messico e in Argentina vengono fuori artisti fantastici, tutti molto giovani. In certi Paesi si tiene conto più del messaggio artistico che dell’aspetto economico-artistico».
Negli anni hai sempre portato avanti questo tipo di discorso, ti sei data anima e corpo per la ricerca, proponendo opere di divulgazione e di riscoperta di diversi repertori. Quale valore attribuisci, oggi, alla sperimentazione?
«Mai come in questo momento, tu puoi capire, per me la sperimentazione diventa cura. Fondamentalmente mi ritengo una curiosa, considera che sono un’autodidatta, avrei voluto fare il Conservatorio ma mio padre non approvava questa scelta, quindi non ho studiato. Allo stesso tempo, tanto era l’amore per la musica che ho sviluppato un’attitudine naturale, riuscendo a fare un certo tipo di cose semplicemente a istinto, a orecchio. Questo perchè la curiosità è sempre stata il mio passaporto, per me la vita stessa è un viaggio fatto di mille opportunità, dove non bisogna mai precludersi nulla. Andare a recuperare e cercare di divulgare mi piace tantissimo, riscoprire e far conoscere, perchè dopo tanti anni tendiamo a dimenticare le cose belle, soprattutto in una società basata sul “soul-food”, cosa che io detesto perché per me la musica deve essere ascoltata e non consumata.
Per me la ricerca è una cura, qualcosa che mi nutre. Cerco, trovo, mischio, faccio tutto quello che è possibile per poter conoscere. Alla fine diventa anche una sorta di dipendenza, perchè ne vuoi sempre di più, non ti accontenti, cerchi di approfondire e ogni volta scopri qualcosa di nuovo. Da un artista passi a un altro, spuntano fuori link, incastri infiniti… ed è magnifico. Pensa, in questo momento sto sviluppando un progetto musicale che, nel frattempo, me ne ha già suggerito un altro teatrale. Poi, non lo so, magari non se ne farà niente, ma intanto ho scoperto un sacco di cose. Non mi piace pensare al mio mestiere come un qualcosa di cadenzato, questo è il motivo per cui sono scappata dalla discografia tradizionale, pur avendo ancora tre album da fare con a disposizione un budget hollywoodiano. Ho deciso di interrompere tutto e di andare per la mia strada. Lo rifarei, perché tutto questo mi ha portato ad essere quella che sono oggi, tornando a Sanremo e al grande pubblico con una canzone che mi racconta».
Palco dell’Ariston su cui avevi debuttato nel 1992, percorrendo i tuoi primi passi. Cosa ricordi di quell’esperienza?
«Ero una bambinetta (sorride, ndr), per me non è stato assolutamente facile affacciarmi a questo mondo. Accettai i primi compromessi, sbagliando. Venendo dalla periferia romana, precisamente dalla Garbatella, per una ragazzina come me non era così facile opporsi. All’epoca fare la musicista e diventare famosa erano considerate due cose parallele, un po’ come accade ancora oggi su larga scala. Sono cresciuta in un posto dove era proibito sognare, dove le mie amiche si sposavano a diciannove anni, per cui decidere di vivere di musica era decisamente una scelta controcorrente. Dentro di me vivevo un vero e proprio conflitto, tra quello che desideravo e quello che si aspettavano gli altri da me, in primis la mia famiglia.
Questa situazione di malessere mi ha portato a commettere errori, ad accettare un contratto sbagliato, andando a Sanremo con una canzone che amavo tanto, che inizialmente non si intitolava “Cosa farà Dio di me”, ma “Giugno ’44”. A volte i produttori si credono più importanti degli artisti. Essendo così giovane sono stata zitta, con grande dolore ho accettato di non avere voce in capitolo. Di conseguenza, non è che feci una grandissima figura, perchè ero molto tesa, si vedeva che ero agitatissima, perchè non mi sentivo a mio agio, quello non era l’arrangiamento che volevo. Per un periodo ho pagato per questi compromessi sbagliati. Poi però, quattro anni dopo, mi sono presa una bella soddisfazione con Rosalino».
Infatti, nel 1996 vinci in coppia con Ron in “Vorrei incontrarti fra cent’anni”. Lì venivi da un periodo difficile ma, allo stesso tempo intenso e formativo….
«Sì, avevo lavorato con grandi cantautori, come Lucio Dalla, Riccardo Cocciante e Renato Zero. Loro mi hanno formata e aiutata, perchè in quel momento ero sotto contratto capestro, non potevo fare le mie cose. Da quelle meravigliose esperienze ho imparato che ogni ostacolo può diventare un’opportunità. Seguivo tutti questi grandi Maestri, li osservavo, imparavo. Insomma, la curiosità mi aveva salvato ancora una volta, anche se in qualche modo ci sono ricascata perchè nel 1997 tornai a Sanremo con “Nel respiro più grande”, una canzone nata con grande semplicità, scritta da Susanna Tamaro e musicata sempre da Rosalino. Diciamo che ci si aspettava troppo, questo è un po’ l’errore di quando si va in una competizione con atteggiamento tronfio, rischi di tornare a casa con le pive nel sacco.
Anche questa esperienza mi è stata comunque utile, mi ha fatto capire che avevo bisogno di tempo, di potermi godere il processo creativo e tutto quello che ne consegue. Fino a quel momento ero stata costretta ad incanalarmi in situazioni che poco mi somigliavano. E’ stato l’incipit di una decisione che mi ha portato a non volere più vincoli contrattuali e discografici, così stringenti e in qualche maniera pretendenti. Sai, la libertà è bella, ma il prezzo da pagare per riuscire ad ottenerla è sempre molto alto. C’è un sistema mainstream che ti da una serie di privilegi, a partire dalla visibilità passando per il compenso economico, però in cambio ti chiede di appartenere a quello stesso circuito. Probabilmente io non ne ero capace, non era nelle mie corde».
Una decisione di cui immagino tu non ti sia mai pentita…
«Esattamente, mai. Fondamentalmente perchè non mi piace questo modo di concepire l’arte, più dalla parte del profitto che a sostegno di un progetto. Quindi ho scelto di defilarmi, ma per poca affinità non certo per snobberia. Ho cominciato a sperimentare, a capire cosa volessi veramente. Alla fine i miei Sanremo sono sempre stati punti di raccolta, mai punti di partenza, tranne il primo naturalmente. Sai, è difficile quando vuoi fare questo mestiere e le porte non si aprono, non certo per esibizionismo, almeno nel mio caso. Esibirsi a tutti i costi, solo per apparire, è sicuramente molto più facile che esistere davvero. Poi, magari, ci può essere anche il momento in cui le due cose coincidono, però, mai come in questo momento viviamo nell’epoca del “basta che ci sei”.
In realtà non è così, il processo creativo dell’arte e della cultura sono esattamente l’opposto. Ci devi essere se hai qualcosa da dire, questo è quello che mi hanno insegnato tutti i grandi, da Renzo Arbore al Maestro Ennio Morricone e gli altri artisti con cui ho collaborato, in primis Ivano Fossati, un esempio vivente di coerenza. Questa scelta mi ha portata a fare tante cose, soprattutto ad avvicinarmi al teatro, partendo da commedie più leggere come “Sette spose per sette fratelli”, passando ad opere più corpose come “I monologhi della vagina” e “L’opera da tre soldi”. Con il mio compagno abbiamo creato una compagnia teatrale, c’è stata una costruzione artigianale molto importante. Infatti, il brano “Il terzo fuochista”, presentato a Sanremo 2007, è nato come un accrescimento di quello stesso percorso. La coerenza è fondamentale, in ogni mestiere».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica fino ad oggi?
«Quello che più mi ha segnato è la condivisione. Infatti, inorridisco quando vedo in giro tutte queste competizioni, perchè la musica è una sfida con noi stessi, non con gli altri. Mi ha insegnato ad avere collaboratori, a costruirmi delle vere e proprie famiglie artistiche, ad ascoltare il parere di tutti. Ecco, il più grande insegnamento è l’ascolto, perchè la musica si ascolta, bisogna avere rispetto pazienza, amore e predisposizione. Mi piace pensare che si tornerà ad ascoltare canzoni e non a consumarle come fossero saponette, perchè scandiscono sia i momenti belli che quelli brutti della nostra vita.
La musica è la prima lingua di un popolo, se la svilisci è come rendere muto quello stesso popolo. Sai, l’arte mi ha salvato la vita, perchè da ragazzina non stavo bene e l’unica cosa che potevo fare era passare le ore ad ascoltare dischi, quelli che comprava mio padre, 33 giri e 45 giri dell’epoca. C’era di tutto, dalla musica classica ai Beatles, passando anche per il pop, dai Matia Bazar ad Alan Sorrenti. Sono sempre stata affascinata dall’imprevisto e da ciò che non ti aspetti, per questo motivo invito i miei studenti a non essere prevenuti, a non privarsi di un ascolto. Questo è quello che ho imparato e che cerco di trasmettere agli altri, perchè la musica è il mio più grande amore».
© foto di Matteo Casilli
© foto di Paolo Soriani
Nico Donvito
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