A tu per tu con il cantautore romano, in uscita con il suo secondo album di inedito intitolato “EGO”
A due anni di distanza dal debutto discografico avvenuto con “Credo“ e a qualche mese dalla nostra ultima intervista, ritroviamo con piacere Vincenzo Incenzo per parlare di “Ego”, secondo album di questa sua seconda vita cantautorale. Paroliere sopraffino che non ha bisogno certo di presentazioni, dotato di un animo puro e sensibile, può vantare un intenso passato come autore, ma anche e soprattuto un interessante e ispirato presente da cronista della canzone. Prodotto da Jurji Ricotti, il disco rappresenta un viaggio tra itinerari diversi, una nave da crociera che attracca in porti e località diverse, come avevamo avuto modo di apprendere già dai singoli apripista “Un’altra Italia” e “Allons Enfants!”, fino ad arrivare all’ultimo estratto “L’amore ha un solo nome”, un brano che merita infiniti ascolti.
Ciao Vincenzo, bentrovato. Partiamo da “Ego“, da quali punti e da quali spunti sei partito?
«Dagli spunti che reputo più congeniali per me, da questa curiosità che si sviluppa su due binari, da una parte la dimensione interiore più intima, dall’altra quella sociale, entrambe per me fondamentali e avvicinabili quando si scrivono canzoni, perché una viene in soccorso dell’altra. Quando ho iniziato a concepire l’idea di questo disco ho pensato alla parola “Ego”, un termine a cui si attribuisce spesso un significato negativo, ma rappresenta proprio questo, un ponte tra i nostri impulsi, i nostri istinti più ancestrali e il collocarci all’interno della nostra società. Ho pensato a questo album come un piano sequenza che parte da ciò che c’è attorno a noi per avvicinarsi sempre di più all’individuo, fino ad entrare dentro l’anima della persona».
Un disco che ci fa riflettere sulla mancanza di amore che affligge la nostra società, quali sono le cause secondo te? Ti sei mai interrogato sul perché siamo arrivati a questo punto?
«E’ spaventoso vedere come si siano persi dei valori e come siano caduti tanti riferimenti, per esempio in una canzone come “L’amore ha un nome solo” si parla del riappropriarsi di concetti assoluti quali l’amor proprio o la fedeltà. Sono tramontati dei valori ma non ne sono arrivati altri, per cui viviamo in una terra di nessuno dove è difficile gestirsi. Abbiamo perso linguaggio e comunicazione, c’è stato un progressivo isolamento, la tecnologia ci ha portato tante cose belle, ma anche una continua ricerca del desiderio che ci ha portato a desiderare il nulla, una corsa continua verso qualcosa e tutto, secondo me, concorre ad uno smarrimento della persona».
Le tue sono riflessioni importanti, per questo mi chiedo e ti chiedo: la musica può ancora veicolare certi temi? La gente ha ancora la “pazienza”, passami il termine, di mettersi lì ad ascoltare le parole e il significato profondo di un disco come questo?
«So che è un rischio che devo correre, io faccio quello penso di poter fare meglio, sarei uno sciocco ad inseguire il tormentone estivo. Mi rendo conto che la musica oggi ha un altro ruolo, non è più centrale ed è accessoria ad altre cose che facciamo nel corso della giornata, un sottofondo alle nostre attività. Per questo cerco di veicolare messaggi un po’ più pesanti utilizzando i codici della contemporaneità, ad esempio attraverso una certa ricerca sonora, l’uso di un linguaggio come quello del rap che reputo molto funzionale, perché ti permette di dire molte cose in poco tempo. Non sono un nostalgico, mi reputo innamorato della grande tradizione e della grande lezione dei cantautori, ma sono molto attento alle nuove tendenze. Cerco sempre di unire questi due codici, anche se poi mi rendo conto che non è sempre facile far passare certi messaggi».
In questo disco ti poni tanti interrogativi, suggerendo tanti spunti di riflessione sull’amore, sulla politica e su tanti temi. Sei riuscito a darti anche delle risposte?
«Per tornare al titolo del disco, credo sia importante riappropriarsi di una centralità della persona, ci siamo tolti da soli il diritto di parola, siamo agli atteggiamenti, tutto si concentra sul vestito che indossi in quel determinato momento. Tik Tok è una fotografia straordinaria del contemporaneo: per esserci bisogna assumere dei comportamenti, anche se non sono i tuoi, però se ti muovi con la gestualità di un altro, se canti in playback sulla voce di un altro, se accetti di misurarti in un tempo che hanno deciso altri… tu ci sei, sei presente, o almeno credi perlomeno di esserlo. E’ giunto il momento di riappropriarci della nostra identità».
Una presenza importante è quella del producer Jurij Ricotti, com’è nato il vostro incontro e cosa ti ha spinto ad affidare totalmente nelle sue mani la rappresentazione sonora di questo lavoro?
«Con Jurji ci conosciamo da tempo, lo incontrai in una serie di seminari in cui io facevo degli stage di scrittura creativa, mentre lui si occupava degli arrangiamenti. Una volta salutato Renato Zero, perché ci sembrava un’operazione ripetitiva, una clonazione del primo disco che non avrebbe avuto senso, ho cominciato a pensare a chi avrei potuto affidare il linguaggio sonoro di questo lavoro. Ho scelto Jurji perché incarna l’intuito e il talento di tanti produttori, proprio perché lui ha una militanza talmente vasta sul territorio musicale, dalla lirica di Andrea Bocelli a Dua Lipa, passando per Ariana Grande e i Queen, possiede davvero una visione trasversale del suono. Di volta in volta, per ogni pezzo, mi suggeriva il giusto musicista da chiamare, per cui era un po’ come avere tante figure che all’occasione si affacciava sulle canzoni a seconda del vestito da dargli».
In scaletta figura un’unica cover, vale a dire “Rispondimi” che hai composto insieme a Lucio Dalla, contenuta all’interno dell’album “Henna” del ’93. Com’è stato rimettere mano a questo pezzo dopo ben 27 anni?
«Guarda, ci ho pensato molto prima di realizzarla, anzitutto volendola sdoganare dal discorso del duetto, per non ripetere un’operazione un po’ telefonata. Ero alle prese con questo salto di tonalità pazzesco, la canzone era un po’ troppo alta o troppo bassa, poi c’era anche il discorso del confrontarmi con un interprete sommo come Lucio. Non l’avrei pubblicata se non fosse venuta così. Abbiamo coinvolto Fabio Liberatori, il suo storico tastierista, che ha creato un mondo fantastico, spostando tutti gli accordi e cambiando le armonie. Eseguendola devo ammettere di essermi riscoperto più cantante, nel senso che ho dovuto studiare bene la canzone in ogni minimo particolare, per cui è stata un’esperienza importante per me, perché mi ha permesso di fare uno scalino in più nell’interpretazione, sento di aver imparato qualcosa grazie a questa prova».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica in tutti questi anni di carriera?
«Sicuramente, ce ne sono tanti. La musica mi ha posto in una posizione di pace, di amore col mondo. Non sento di avere persone con le quali ci sia attrito, in questo senso credo che la musica sia stata fondamentale. Mi ha aperto al mondo, per un carattere introverso come il mio è stato meglio di venti sedute di psicoterapia (sorride, ndr), in più mi ha tolto dall’ansia del tempo, cioè non ho paura di invecchiare, bensì penso a mettere qualità in ogni singolo giorno. Il tempo e l’amore, due valori fondanti della vita, che la musica è riuscita a mettermi a fuoco nella maniera migliore».
© foto di Patrizia Zalocco
Nico Donvito
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