La deumanizzazione dell’arte passa attraverso la manipolazione della voce, correggere l’intonazione e mascherare le imperfezioni per ottenere quindici appetibilissimi minuti di notorietà
“In futuro ognuno avrà il suo quarto d’ora di celebrità”, scriveva Andy Warhol nel lontano 1968. Sono passati cinquant’anni e tutti noi ci chiediamo quale prezzo saremmo disposti a pagare per ottenere la fama e il successo, qual è il confine oltre il quale non sarebbe moralmente giusto spingerci. Un quesito interessante, più che mai attuale. Anni e anni di dibattiti sull’intelligenza artificiale, sui robot che in futuro potrebbero sostituire l’uomo negli impieghi più comuni. Fantascienza? No, realtà parallela che piano piano sta prendendo piede e che potrebbe portare la creatività umana alla deriva, dalle stampanti 3D che ricreano opere d’arte simili alle originali passando per l’utilizzo di software in grado di trasformarci tutti quanti in cantanti provetti.
No, non è la trama del prossimo film di Steven Spielberg, ma ciò che è andato in scena nel corso del terzo appuntamento serale di “Amici” di Maria De Filippi, con il (t)rapper Biondo che non ha fatto mistero del suo utilizzo dell’autotune in ben due sue performance dal vivo, anche se con un dosaggio così massiccio se ne sarebbe accorto perfino un bambino. Il risultato? La sua voce ricordava quella di un chipmunks.
Va precisato che autotunnare la propria voce è legale, quindi nessun accanimento nei confronti di un giovane ragazzo che crede in quello che dice e in quello che esprime attraverso la sua musica, una convinzione che nessuno riuscirà a toglierli dalla testa, almeno finché avrà una schiera di ragazzine urlanti dalla sua parte. Ermal Meta ed Heather Parisi hanno provato invano ad intavolare con lui una trattativa, spiegando come in una gara di canto sia “scorretto” avvalersi di una tecnologia in grado di correggere l’intonazione e mascherare le imperfezioni, incentrando la comunicazione sul concetto di doping musicale, ma dall’altra parte nessun cenno di comprensione.
Un concorrente si presenta, non nasconde le sue lacune canore e la sua scelta di esibirsi con uno strumento che migliora (e a parer mio un tantino sporca) la sua esecuzione, viene massacrato da tutti (tranne Simona Ventura e Rudy Zeri) e poi? Passa alla quarta puntata del serale e tanti cari saluti alla coerenza. D’altronde anche lo stesso Ermal qualche mese fa si era ritrovato in una situazione simile al Festival di Sanremo, con un brano giudicato da molti “scorretto” ai fini del concorso, poiché l’inciso era stato campionato da un brano già edito. Allora, mi domando, cosa è lecito in una gara musicale e cosa no? Forse, la colpa è dei regolamenti poco chiari, del voler fare a tutti costi spettacolo, salotto e caciara mediatica, per poi lasciarsi tutto allegramente alle spalle, servendo in tavola tarallucci e vino, arrivando ad archiviare il caso per prescrizione.
Sia chiaro, come ogni trovata originale, anche questa “tecnica” arriva dagli Stati Uniti, noi italiani ci siamo solo limitati a seguire una moda già esistente oltreoceano da circa vent’anni, infatti, il primo utilizzo dell’autotune nella storia discografica risale al 1998 con la hit “Believe”, portata al successo da Cher. La musica italiana si è sempre contraddistinta nel mondo per il suo bel canto, un marchio di fabbrica, una caratteristica riconosciuta a livello internazionale ma, oggi, sta vivendo uno dei suoi periodi più difficili: per via delle numerose contaminazioni stiamo perdendo la nostra vera identità. Tutto è iniziato negli anni ’80, quando abbiamo sposato la filosofia del playback, importando sonorità e stili musicali che non ci appartengono, che hanno letteralmente spodestato l’attenzione dal cantautorato e dal made in Italy.
L’autotune è solo l’ultima diavoleria anti-artistica progettata dall’uomo, che può trovare giusta collocazione in uno studio d’incisione (diventato ormai un vero e proprio laboratorio), ma ormai diffusa anche nei live e, a onor di cronaca, presente ultimamente in alcune performance di altri talent show, tra cui anche The Voice. Non si tratta di una questione tra favorevoli o detrattori di una “macchinetta magica”, bensì di un atteggiamento spocchioso e da bulletto, tipico di alcuni ragazzi che prendono parte a questi programmi, che non accettano il sano valore di un giudizio o, peggio ancora, l’autenticità che si cela dietro ad una stecca.
Nico Donvito
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