A tu per tu con Carlo Vannini, per parlare del disco “Punto e accapo”. La nostra intervista al cantautore
Carlo Vannini è un artigiano della musica, uno che l’arte l’ha masticata sin da giovanissimo, l’ha studiata, studiata veramente, diplomandosi in teoria e solfeggio al Conservatorio di Musica Cimarosa di Avellino e laureandosi col massimo dei voti in Canto Jazz presso il Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli.
L’Album “Punto e accapo” è la sintesi del primo passo verso il mondo del cantautorato di Carlo Vannini. L’artista ha voluto raccogliere e ricostruire tutti i brani scritti negli ultimi quindici anni, commistionandoli a quelli scritti più recentemente che potessero rappresentarlo al presente. Approfondiamone con lui ogni dettaglio.
“Punto e accapo” è il titolo dell’album che segna il tuo debutto discografico. Lo consideri più un biglietto da visita o una sorta di raccolta di quanto scritto e realizzato finora?
«Posso dire entrambe le risposte? Punto e Accapo è la sintesi dei brani che più mi rappresentano tra quelli scritti negli ultimi 10 anni, ma è anche una raccolta delle mie anime: quella jazz, quella teatrale e quella popolare».
L’album raccoglie canzoni che spaziano da diversi periodi della tua vita. Come hai scelto i brani da includere e quale filo lega queste composizioni?
«Ogni canzone che scrivo è, fin dai primissimi momenti, pensata ed immaginata ricercando un rapporto diretto con chi mi ascolta. Canzoni up come Assettato o L’Amaca, ma anche le ballad come Ammore nun ce stà o Come quella volta al mare, sono strutturate su un racconto; una piccola storia che, mi auguro, possa far compagnia ai loro pensieri. Il filo che le lega sono semplicemente io. Con i miei gusti, con ciò che amo e ciò che non sopporto».
Nel tuo album ci sono forti richiami alla tradizione popolare, al jazz, e anche al teatro. Come sei riuscito a far confluire questi mondi?
«Tutto è senza dubbio frutto dei miei gusti musicali e delle esperienze che ho fatto nella mia vita. Sentire gli odori dei teatri che ho vissuto o i corridoi del Conservatorio del San Pietro a Majella, muovono inevitabilmente la mia mano che scrive».
La produzione e gli arrangiamenti sono stati curati da Giosi Cincotti, com’è stato lavorare con lui e che tipo di approccio c’è stato in studio?
«Lavorare con Giosi, che è prima di tutto un amico, nonché collega visti i tanti spettacoli fatti insieme, è stato come lavorare con l’amico di sempre. Giosi è riuscito, come un allenatore di calcio, a coordinare una squadra di musicisti che adoro, dietro e fuori le quinte, e a far sembrare tutto un perfetto tiki taka. Ernesto Nobili alle chitarre, Michele Maione alle percussioni, Roberto Giangrande al contrabbasso e Arcangelo Michele Caso agli archi, sono stati dei compagni di squadra perfetti».
Nel brano “Ammore nun ce stà” c’è una preziosa collaborazione con Arcangelo Michele Caso agli archi. Come è nata questa collaborazione e quale atmosfera avete voluto creare con il suo apporto?
«Erano anni che conoscevo Arcangelo, l’ho apprezzato in tante delle sue performance, ma mai ero riuscito ad avere una collaborazione musicale con lui. Ci è sembrato naturale coinvolgerlo e far “parlare” la sua anima e le sue note».
L’ascolto si apre con ‘A tammurriata d’’a munnezza’, un titolo molto evocativo. Da quali riflessioni nasce questo pezzo?
«Questo brano nasce da un sentimento simile all’appocundria, o alla saudade. Quando abitavo alle porte del Rione Sanità, vicino Piazza Cavour, rimasi colpito da come nella stessa piazza convivessero metropolitane, scuole e turisti con degrado, barboni e immondizia. Tanti passano e non notano tutto quello che c’è perché sono “ammaliati” dagli odori di una pizza o di una sfogliatella, o magari sono distratti dai colori accesi dei vicoli (che allora erano ancora più vividi per lo scudetto). Piazza Cavour, infondo, rispecchia le contraddizioni di questa città».
Come valuti l’attuale scena musicale di oggi? Cosa ti piace e cosa meno?
«Penso che oggi il bello e il brutto della scena musicale è che grazie ai social e alle piattaforme digitali, c’è spazio un po’ per tutti (o per nessuno?). Tra gli artisti di oggi ne ascolto davvero molti. C’è sempre da imparare qualcosa. Indipendentemente dal genere musicale o dall’esperienza. L’importante è essere sempre autentici e onesti nei confronti di chi ti ascolta».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica fino ad oggi?
«Che bisogna amarla, studiarla e rispettarla come una religione. Non a caso c’è sempre. A farti commuovere a eccitarti o semplicemente farti compagnia».
Nico Donvito
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