venerdì 10 Gennaio 2025

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“Sanremo Story”, gli episodi di censura al Festival

Sanremo Story: la rubrica che ripercorre le tappe fondamentali del Festival della canzone italiana, attraverso aneddoti e approfondimenti. A cura di Nico Donvito

Per molti il Festival di Sanremo è quell’evento televisivo che catalizza davanti allo schermo per una settimana all’anno, uno spettacolo colorato, uno psicodramma tragicomico collettivo, un carrozzone fiorito stracolmo di cantanti, presentatori e vallette. Negli anni, ne abbiamo lette e sentite parecchie di definizioni, tutte profondamente vere, ma nessuna realmente corretta. Sanremo censura

Per dare una risposta allo slogan “Perché Sanremo è Sanremo”, è necessario riscoprire la storia di questo grande contenitore che nel tempo si è evoluto, ma senza perdere il proprio spirito. La verità è che il Festival è un vero e proprio fenomeno di costume, la favola musicale più bella di sempre, lo specchio canterino del nostro Paese. Con la sua liturgia, la kermesse non è mai riuscita a mettere d’accordo ammiratori e detrattori, forse in questo alberga la vera fonte del suo duraturo consenso. La rubrica “Sanremo Story” si pone l’obiettivo di raccontare tutto questo e molto altro ancora.

“Sanremo Story”, gli episodi di censura al Festival

Saremo pure fuori di testa, ma orgogliosamente diversi dalle scelte degli altri. Se l’Italia ha dimostrato di essersi aperta a nuovi linguaggi, parolacce comprese, l’Europa nel 2021 ha risposto censurando alcuni versi di “Zitti e buoni” dei Måneskin. Così quel «buonasera signore e signori, fuori gli attori» è andato avanti con un rassicurante «vi conviene non fare più errori» al posto della più incisiva toccatina di attributi cantata sul palco dell’Ariston. La stessa sorte è spettata alla parte finale del brano: «parla la gente purtroppo parla, non sa di che cosa parla» derubata di un «cazzo» che, nella versione originale, funzionava da rafforzativo.

Situazione analoga era capitata a Francesco Gabbani nel 2017, quando la sua “Occidentali’s karma” era stata privata del verso «piovono gocce di Chanel su corpi asettici» ed aveva subito altri tagli decisivi per ridurre la durata della canzone, venendo così penalizzati il senso e il risultato finale. D’altronde, il regolamento della rassegna parlachiaro: niente volgarità, nessun riferimento a marchi con fini commerciali e massimo tre minuti di tempo per ciascuna proposta musicale. Sullo stesso argomento il Festival di Sanremo ha assunto negli anni posizioni differenti e, a seconda delle varie organizzazioni, le regole sono state interpretate in maniera diversa.

Comunque sia i Måneskin hanno accettato di buon grado il compromesso dichiarando agli organi di stampa: «siamo ribelli, mica scemi». I ragazzi di Monteverde sono tornati sui propri passi una volta agguantata la vittoria, eseguendo il pezzo così come mamma lo aveva fatto, ricalcando in qualche modo le memorabili gesta di gruppi come i Rolling Stones e i Doors. Questi ultimi, durante la diretta televisiva dell’Ed Sullivan Show del 1967, non avevano apportato alla loro “Light my fire” i cambiamenti che erano stati precedentemente pattuiti. Un gesto inguaribilmente rock.

A parte il recente caso di pura spavalderia e avanguardia, la storia di Sanremo pullula di episodi di censura. L’importanza mediatica del Festival ha sempre implicato un controllo minuzioso e pressante, per quanto riguardava sia i testi delle canzoni in gara che gli interventi di ospiti e comici fuori concorso.

Tra le prime opere musicali contestate ci fu “Tua” di Jula De Palma, proposta nel lontano 1959. A preoccupare la Rai non fu soltanto il contenuto letterale, ma soprattutto l’interpretazione audace della cantante, oltre al succinto abito di scena. Insomma, una commistione di elementi giudicati troppo provocanti e lascivi per l’epoca. Si susseguirono le edizioni, ma la minestra rimase sempre la stessa. Nel ’71 lo stesso destino spettò a Lucio Dalla, in gara con il brano “Gesù bambino”, scritto insieme a Paola Pallottino. Il cantautore bolognese venne convinto a cambiare titolo, optando per la sua data di nascita, e dando così vita alla splendida “4 marzo 1943” che tutti conosciamo, malgrado i versi censurati. «Giocava alla Madonna con un bimbo da fasciare» diventò «giocava a far la donna con un bimbo da fasciare», mentre «e ancora adesso che bestemmio e bevo vino per i ladri e le puttane sono Gesù bambino» si trasformò in «e ancora adesso che gioco a carte e bevo vino per la gente del porto mi chiamo Gesù bambino».

Nel 1972 toccò a Nicola Di Bari ridimensionare il testo de “I giorni dell’arcobaleno”, canzone vincitrice di quell’edizione, per rendere meno palese il racconto della prima volta di un’adolescente, la cui età passò magicamente da tredici a sedici anni.

Bisogna tenere in considerazione che, in quegli anni, a Sanremo il sesso era considerato ancora un tabù, così nel 1974 fu ripreso addirittura un puritano come Mino Reitano, che nella sua “Innamorati” dovette rinunciare al verso «per terra le tue calze bianche, la tua maglietta, i tuoi blue jeans» in favore di «nell’aria c’è la primavera e sta sbocciando dentro noi il primo fiore bianco».

Situazione analoga avvenne due anni più tardi con la partecipazione di Antonio Buonomo: il testo de “La femminista” fu messo fortemente in discussione, a causa della frase «mentre è chiaro che combatti, se sul letto tu mi sbatti», poi riletta in «mentre è chiaro che combatti con degli argomenti adatti». Questi accorgimenti non bastarono al giovane napoletano ad eludere le polemiche, considerato il momento storico piuttosto acceso, caratterizzato da accanite lotte in favore dell’emancipazione e della parità tra i due sessi. Non a caso, il giorno seguente l’esibizione, un gruppo di femministe aggredì il cantante, ricoprendolo di insulti, pugni e schiaffi. Sullo sfondo, altre donne parecchio agguerrite inneggiavano all’aggressione, esibendo cartelli con scritto «figlia, moglie, madre, ne abbiamo le ovaie quadre».

Nel 1979 a Franco Fanigliulo venne imposto di modificare un passaggio della sua “A me mi piace vivere alla grande”, fu così che «foglie di cocaina voglio sentirmi male» mutò in «bagni di candeggina voglio sentirmi uguale». Stessa solfa nel 1980, quando “Voglio l’erba voglio” di Francesco Magni subì il veto dalla Rai rispetto al verso «chi si tira una pera solamente il dì di festa», ma il cantante se ne infischiò e lo interpretò comunque sul palco. Proprio come fecero nel 1988 i Figli di Bubba che, nell’eseguire durante la finale la loro “Nella valle dei Timbales”, cantarono: «fanculo all’esclusiva, fanculo alla tv» al posto del concordato «saluti all’esclusiva, saluti alla tv».

Rispetto al tema delle droghe leggere, nel 1982 fu censurata anche “Vado al massimo” di Vasco Rossi, che si ingegnò per convertire l’originario «vado in Messico, voglio andare a vedere se come dice il droghiere, laggiù masticano tutti foglie intere» in «laggiù vanno tutti a gonfie vele».

Sorte diversa è toccata alla parola “minchia”, legittimata sul palco dell’Ariston con la celeberrima “Signor tenente” di Giorgio Faletti, che attribuì al termine un senso di esclamazione, completamente diverso dal significato originario legato alla traduzione letteraria dal siciliano all’italiano. Anni luce prima del dibattito sull’omotransfobia, nel 1996 la mano della censura si posò tra i versi di Sulla porta di Federico Salvatore, con «Sono un diverso, mamma, e questo ti fa male» che andò a rimpiazzare la parola «omosessuale», in una sorta di ostracismo narrativo.

Ben più insolito il caso dell’imprecazione per antonomasia: il rapporto tra Sanremo e il “vaffa” è stato nel tempo molto controverso. Ad inaugurare le danze ci pensò Loredana Bertè nel 1997, con quel «vaffanculo Luna» considerato ancora troppo scandaloso per i tempi, al punto da essere edulcorato in «occhiali neri Luna». Nel 2006 questa parola subì l’ultima censura festivaliera in “Com’è straordinaria la vita” di Dolcenera, con il verso «ti viene da prendere un treno e andare a fanculo, lasciare tutto com’è» che cambiò la destinazione finale del viaggio in «andare lontano».

Fu Milva, l’anno seguente, con la sua «alba slavata da mandare a fanculo» interprete di “The show must go on”, la prima a pronunciare tale espressione in gara. Incredibile pensare che il compito di sdoganare questo tipo di terminologia toccò ad una signora di sessantotto anni, supportata nella scelta dall’allora settantunenne direttore artistico Pippo Baudo. Il conduttore siciliano approvò, tra le Nuove Proposte di quella stessa annata, anche la frase «che figlia di puttana la femminilità», presente in “Peccati di gola” di Patrizio Baù.

Un termine che aveva già provato a varcare le porte dell’Ariston nel 1981, quando “Roma puttana” di Luca Barbarossa dovette cambiar titolo in “Roma spogliata”. Nel 2001, invece, toccò ai Sottotono non poter pronunciare la medesima parola, cosa che invece fu permessa in tempi più recenti ne “Il diluvio universale” di Annalisa del 2016 e in “Sincero” della coppia Bugo-Morgan del 2020.

Nel 2005 i Concido auto-censurarono il titolo del proprio testo ribattezzandolo “Ci vuole k…”, nonostante nel corso dell’esibizione venisse più volte pronunciata con nonchalance la parola «culo». Nessun problema invece per Marcella Bella, che nello stesso anno propose con determinazione la sua “Uomo bastardo”, concetto ampiamente ripreso nel 2011 da Anna Tatangelo nell’altrettanto evocativa Bastardo.

Nel 2009 il romanticismo lasciò spazio ad un linguaggio sempre più diretto e quotidiano, con “Vivi per un miracolo” dei Gemelli DiVersi che conteneva il passaggio «per chi è umiliato e al suo padrone grida vaffanculo». Nello stesso anno, da segnalare, la performance di Marco Masini, autentico chansonnier dell’imprecazione, che senza troppi giri di parole cantò «è un paese l’Italia che ci ha rotto i coglioni», adottando per la prima volta nella storia del Festival il vocabolo, dodici anni prima rispetto ai Måneskin e nove prima di “Una vita in vacanza” de Lo Stato Sociale e del loro intramontabile grido «nessuno che rompe i coglioni».

La censura ha caratterizzato in parte anche la nostra storia più recente. Un esempio su tutti? Emis Killa. Il 2018 sarebbe dovuto essere l’anno del suo debutto sanremese con “Fuoco e benzina”, ma la candidatura era stata ritirata dallo stesso rapper che aveva accusato l’organizzazione di pretendere modifiche in diverse parti del testo.

Parole ardite anche per Rita Pavone nel 2020, quando in un passaggio della sua “Niente (Resilienza 74)” la cantante intonò «meglio cadere sopra un’isola o un reality che qualche stronzo voterà». Nel corso degli anni la censura ha colpito le espressioni commerciali occulte, vietate senza alcuna deroga. Una prima manifestazione di questo orientamento si ebbe nel 1990, quando i Pooh, nella loro “Uomini soli”, dovettero sostituire il «Corriere della Sera» con un vago «nel giornale della sera», in modo da evitare guai con le testate concorrenti.

Facendo un balzo in avanti, nel 2019 è toccato ad Achille Lauro sostituire «vestito bene Michael Kors» con «vestito bene Via del Corso», nonostante il titolo “Rolls Royce” facesse chiaro riferimento alla conosciutissima casa automobilistica. Eppure, otto anni prima, “Yanez” di Davide Van De Sfroos conteneva al suo interno già parecchi riferimenti ad aziende e prodotti molto conosciuti: da Red Bull a Suzuki, passando per Billabong, Ray-Ban e iPhone. In quel caso ha aiutato parecchio il dialetto laghée che, probabilmente, ha mascherato il contenuto del brano.

Molti anche i comici vittime di censura, a cominciare da Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi, colpevoli di aver sbeffeggiato in uno sketch il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Nel 1962 l’organizzazione decise di tagliare televisivamente il loro intervento al Casinò, non ritenendoli adatti all’Eurovisione. Stessa sorte per il grande Massimo Troisi, che nel 1981 avrebbe dovuto presenziare in qualità di ospite, ma che fu costretto a rinunciare in extremis al suo monologo dopo che i dirigenti della Rai avevano posto un veto sul contenuto, probabilmente perché ancora scottati dalle esternazioni di Roberto Benigni che, l’anno prima, aveva apostrofato Giovanni Paolo II con il termine “Wojtylaccio”, in tempi ben lontani dalle acclamate esegesi dei Dieci Comandamenti e del Cantico dei Cantici…