Recensione del secondo album d’inediti della giovane cantante
La giovanissima e fragile Federica Carta c’ha provato a costruirsi un’identità, a ritagliarsi un piccolo spazio nel sistema discografico, a costruirsi e mantenersi un pubblico fedele e personale ma la missione era, come per tutti, particolarmente difficile. A poco sembra esser servito, a tal fine, persino il duetto multiplatino con Shade su Irraggiungibile che non ha spinto in alcun modo i successivi due estratti radiofonici della giovane interprete romana passati totalmente inosservati anche a causa della pesante bocciatura al Festival di Sanremo 2018, dove si era candidata con i La Rua non riuscendo, comunque, a conquistare uno dei 20 posti utili.
Molto più di un film è un album che cerca un’importante evoluzione. Un’evoluzione che, però, ha tutto il sapore di andare nella direzione sbagliata, nell’unica davvero vietata: l’omologazione a quanto il pop già da qualche tempo propone. Se l’obiettivo era, e rimane, la ricerca di uno spazio proprio la scelta di adattarsi ai diktat e alle mode altrui non può che rendere il tutto più difficile e impraticabile.
Ed è che così Federica abbandona il suo caro vecchio pianoforte per sposare i beat electropop, lascia da parte il racconto della vita e della sua giovane età per sposare un anonimo racconto di un amore irrealmente maturo, accantona il canto emotivo, sussurrato e naturalmente delicato per scegliere una dinamica più sostenuta, basata sulle doppie voci e su di un generale appiattimento moderno alla melodia. Tutto ciò prende vita fin dalla title track e primo singolo estratto, Molto più di un film, che su di un arrangiamento ritmicamente sporcato di mondo urban spinge la voce ai suoi limiti inserendo, ovviamente, gli immancabili “oh-oh-oh“, imprescindibile elemento per la ricerca della facile orecchiabilità.
A salvarsi da tutto questa ricerca esasperata e infruttuosa di modernità sono soltanto Dove sei e la conclusiva, ed in parte già nota, Tutto quello che ho. Se nella prima la tendenza al ricorso dei sintetizzatori è comunque presente, nella seconda si concretizza l’unico richiamo al passato mondo sonoro con la voce che risuona profondamente diversa rispetto a tutti gli altri episodi questo lavoro. L’apertura intima, intensa e così tremendamente vera rende giustizia alla vera dimensione musicale di Federica: quella più melodicamente trattenuta ed emozionale per consentire il racconto di ciò che ella davvero vive.
Le altre 8 tracce viaggiano su binari già noti e sufficientemente prevedibili ad eccezione della (potenzialmente) sanremese Sull’orlo di una crisi d’amore che vede i La Rua avvicinarsi al mondo musicale della giovane ragazza romana più di quanto lei faccia verso il funk proprio della band marchigiana. L’istrionica scrittura di Daniele sceglie una via più immediata adagiandosi su di una melodia contemporanea di Dario Faini e creando un interessante brano che, anche se non immediato, arriva a coinvolgere l’ascoltatore anche grazie alla riuscita fusione contrastante tra la voce rocciosa, solida e mascolina del leader della band e quella più soave della più giovane interprete.
Se la firma della giovane Carta è numericamente più presente rispetto al primo lavoro (qui la nostra recensione) il suo marchio risulta perlopiù sbiadito se non del tutto irriconoscibile rispetto alla più rodata coppia autorale di Davide Simonetta e Alessandro Raina che nell’electropop ci sguazzano da un bel po’ confezionando senza troppa fatica due riuscite (innocue) e leggere ballate come Amarsi è una cosa normale e La fine di un attimo.
Tutto il resto dell’album viaggia senza troppi lumi in un territorio già ampiamente battuto da tante altre voci che non vi hanno lasciato più alcun tesoro da scoprire. Ed è così che si passa dall’eterna storia d’amore di Tra noi è infinita, vista dallo spazio perchè anche se “noi non siamo astronauti è come se lo fossimo”, alla ultra-sintetica Due in questa stanza, in cui “non hai più niente da dire” se non che “sono felice in superficie”. La passione di una storia d’amore in cui “penso sempre agli altri e mai a me stessa” è la protagonista della dualistica Il sole a mezzanotte in cui una black ballad trova nella continua ripetizione del ritornello l’unica appropriata soluzione testuale. Più delicate e potenzialmente promettenti La mia verità e Quanta vita serve si rivelano come fossero degli ibridi non pienamente compiuti: se nella prima la ricetta risulta non esattamente centrata nelle proporzioni degli ingredienti, nella seconda tutto suona più misurata e la voce si fa finalmente intensa non riuscendo, però, a creare la suggestione magica che una versione più acustica e tradizionalmente suonata avrebbe potuto evocare.
Molto più di un film è un disco che suona come la maggior parte dei dischi in circolazione nel pop italiano dei nostri giorni ed esattamente come essi non ha alcun fine supremo da realizzare: non vuole passare alla storia, non intende proporre nuovi schemi o narrare vicende particolari. Vuole essere, semplicemente, un dignitoso album d’amore pop. Tutto perfetto se non fosse che la sua interprete non si adatta perfettamente a questo mondo nè per vocalità nè per intenzione interpretativa. Federica è soffice, delicata, intensa, insicura pur essendo giovane e spensierata. La sua ricetta musicale è nata accompagnata da un pianoforte e nient’altro, da un’atmosfera sospesa e minimale, da un racconto personale di quel poco che la vita finora le ha mostrato. Privarsi di tutto ciò per rientrare nell’ombra o nell’impronta di qualcun’altro è uno sforzo inutile, inappropriato e soprattutto inefficace. Ne esce un prodotto spendibile, forse, ma sicuramente insapore, scolorito e impersonale. Un disco che si fa ascoltare, certo, ma che difficilmente si farà ricordare se non per il rammarico di non essersi mostrati per ciò che davvero si è.
MIGLIOR TRACCIA: Tutto quello che ho
VOTO COMPLESSIVO: 6.8/10
Ilario Luisetto
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