A tu per tu con l’artista bresciano, fuori con il suo ottavo progetto discografico intitolato “L’altra metà”
Tempo di nuova musica per Francesco Renga, in uscita con il suo nuovo lavoro di inediti “L’altra metà“, prodotto da Michele Canova Iorfida e contenente dodici brani inediti, tra cui spiccano autori e musicisti del calibro di: Ultimo, Gazzelle, Fortunato Zampaglione, Paolo Antonacci, Davide Simonetta, Edwyn Roberts, Bungaro, Cesare Chiodo, Rakele, Giacomo Runco, Colapesce, Antonio Di Martino, Luca Serpenti, Leo Pari, Patrizio Simonini, Daniele Conti, Federico Fabiano, Danti, Matteo Grandi e Michele Zocca. Anticipato dai singoli “Aspetto che torni“ e “L’odore del caffè“, l’album si distingue per il suo linguaggio contemporaneo frutto di una lunga ricerca che, in qualche modo, completa la trilogia iniziata nel 2014 con “Tempo reale” e proseguita nel 2016 con “Scriverò il tuo nome”.
Ciao Francesco, partiamo da “L’altra metà”, il tuo ottavo progetto discografico, che significato ha per te?
«E’ frutto di un lungo percorso cominciato cinque anni fa, quando ho percepito che c’era in atto una mutazione della musica, quindi ho alzato le antenne e ho avvertito l’urgenza di trovare un linguaggio diverso, nuovo, più consono a quello che stava succedendo attorno a me. In realtà la rivoluzione è stata velocissima, l’ho percepita ascoltando i lavori di cantautori più giovani, come Coez, Ultimo con il quale ho collaborato in questo disco, Calcutta e tutta la nuova generazione che mi ha letteralmente folgorato, intendo proprio per il mondo di cantare che, di conseguenza, implica un approccio alla scrittura diverso. Lo considero un lavoro preciso, ho trovato il giusto codice per comunicare in maniera naturale ciò che mi sento di dire oggi».
Ancora una volta le collaborazioni sono state determinanti, forse in questo album addirittura fondamentali?
«Assolutamente sì, mi sento in dovere di ringraziare tutti i giovani autori e musicisti che mi hanno accompagnato. E’ stato un lavoro molto diversificato, per questo il risultato è eterogeneo e la tavolozza dei colori è vastissima. “Prima o poi” credo che sia la sintesi di tutto questo progetto, sia a livello di scrittura grazie alla collaborazione con Gazzelle, sia per quanto riguarda il canto perché c’è quell’asciuttezza e quella direzione che cercavo. Lui mi piace molto, in particolare il suo modo di raccontare le cose e le soluzioni che trova nell’esporle vocalmente. Quando mi è arrivato il suo pezzo mi è piaciuto subito, insieme lo abbiamo completato perché mancava lo special e abbiamo rivisto alcune parti del testo.
Un po’ come è capitato anche con Ultimo, “L’odore del caffè” era già una canzone bellissima cantata da lui piano e voce, ma il testo era di un ragazzo di ventitrè anni e non sarei mai stato credibile se lo avessi cantato a suo modo. Ho molto apprezzato la sua modestia, perché si è rimesso al lavoro riscrivendolo fino ad arrivare alla versione che potete ascoltare oggi. Anche io nel corso degli anni ho avuto l’umiltà di aprirmi a nuovi ascolti, all’inizio anche con fatica perché le cose che non capisci un po’ ti spaventano, ma ho imparato a scendere dal mio piedistallo per guardare cosa c’è oltre, trovo che la condivisione sia fondamentale per qualsiasi artista, non ci si può chiudere nella propria torre d’avorio, bisogna sporcarsi le mani, per cui il confronto con gli altri diventa necessario e stimolante».
Non è mai facile raccontare un disco, qual è stata la sua evoluzione?
«E’ partito tutto da “Tempo reale”, se ripenso alla difficoltà e alla fatica che ho fatto per cantare un pezzo come “Il mio giorno più bello del mondo”, che forse ha segnato l’inizio di questa mia personale rivoluzione, mi ritrovo oggi ad aver interpretato con estrema facilità e naturalezza le tracce di questo disco, anche quelle inizialmente più lontane da me».
Infatti, tra i pezzi sulla carta più distanti figura “Finire anche noi”, che considero proprio per questa ragione il brano più interessante, perché sei riuscito laddove molti tuoi colleghi hanno fallito, ovvero nello sperimentare pop e sonorità elettroniche. Immagino non sia stato facile…
«No, non è stato facile, “Finire anche noi” è stata scritta direttamente in studio con gli amici Paolo Antonacci e Davide Simonetta, che mi hanno aiutato a comporla. In verità anche il produttore Michele Canova si è trovato in questa stessa condizione, è un percorso che abbiamo cominciato insieme, anche per lui si è trattato di un’evoluzione graduale, questo disco è frutto di un lavoro molto più ampio, abbiamo avuto modo di far sedimentare le canzoni e di trovare un linguaggio musicale che fosse credibile e rappresentativo. Per me era importante anche rispettare quello che ho fatto fino ad oggi, quando il passato comincia ad essere ingombrante ci sono tante cose di cui devi tenere conto, perché si possono fare scivoloni incredibili, scimmiottare cose che non ti appartengono e renderti ridicolo, errori che in realtà posso capitare quando sei alla ricerca di qualcosa di nuovo. Fortunatamente credo di non esserci ancora arrivato nel corso dei miei trentacinque anni di carriera».
Al di là della posizione in classifica, qual è il bilancio sulla tua ultima partecipazione al Festival di Sanremo?
«Il Festival è stato una mia forzatura, volevo fare Sanremo proprio con quella canzone che era nata pochi giorni prima del termine e dell’annuncio ufficiale del cast, mi sono impuntato contro la volontà di tutti, pur essendo perfettamente consapevole che, a cinque anni dalla mia ultima partecipazione, la kermesse era cambiata moltissimo. Ho voluto andarci con un brano che rappresentasse per me una testimonianza, “Aspetto che torni” mi è servita per fare pace con tutta una serie di situazioni ed era in assoluto la proposta attraverso la quale volevo cominciare il racconto di questo disco. La volontà è stata quella di iniziare con qualcosa di più classico, vicino a quanto fatto sin dall’inizio, che parlasse di una tematica per me così cara, intima e ricorrente. Personalmente l’operazione sanremese ha significato questo, per cui non ho alcun rimpianto e sono felicissimo di aver cominciato questo viaggio da quel palco e con questo pezzo».
Se avessi la possibilità di tornare indietro, c’è qualcosa che faresti diversamente oppure appartieni alla scuola del “buona la prima”?
«Di tutti i miei sbagli ho un ricordo bellissimo, perché attraverso gli errori sono diventato l’uomo che sono adesso, rifarei tutto in assoluta allegria (sorride, ndr). Ritrovare la voglia e il coraggio di mettersi in discussione mi è servito tantissimo, per me è stato un grande risultato, perché nel momento in cui ti trovi a tuo agio e ti senti padrone del modo di comunicare riesci a giocare con le parole e puoi anche divertirti, altra caratteristica che credo si possa sentire ascoltando questo disco».
Quanto è importante, secondo te, approfondire le conoscenze e allargare le nostre vedute per poter comprendere al meglio le situazioni e le mutazioni in ambito musicale?
«E’ indispensabile, infatti ho voluto realizzare un album che potesse parlare a tutti, compresi i miei figli, perché se vuoi essere presente devi riuscire a comunicare anche alle nuove generazioni, trovando un linguaggio che sia consono ma senza peccare di credibilità, perché se c’è un talento che i giovani d’oggi hanno innato è questo fiuto per il fake, ciò che per loro è naturale per noi non lo è, come per me non lo è stato imparare ad usare i social, mentre ora mi diverto un sacco a fare stories, ma sono consapevole del fatto che si può vivere anche senza, mentre questo i ragazzi non lo concepiscono, anzi forse non lo sanno nemmeno (ride, ndr). I miei figli sono i miei occhi e le mie orecchie nel futuro della musica del nostro Paese, le avanguardie del mio spirito».
Nico Donvito
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