A tu per tu con l’artista livornese, in uscita con l’Ep “Libero (I’m free)” dal respiro internazionale
A due anni di distanza dalla precedente chiacchierata realizzata in occasione del lancio del singolo in duetto con Sara Galimberti, ritroviamo con piacere Manuel Aspidi, per parlare del suo nuovo progetto discografico, intitolato “Libero (I’m free)”, che vanta prestigiose collaborazioni internazionali con il produttore Phil Plamer, Alan Clark, Mickey Feat e Julian V. Hinton. In scaletta sei tracce (“Un angelo per me”, “Oh Yeah!”, “Libero (I’m free)”, “E si va” , “Questo è il momento” e “Let out this light”) musicalmente una diversa dall’altra, canzoni che mettono in risalto l’enorme potenziale vocale del talento toscano, che ricordiamo per le sue partecipazioni ad “Amici” di Maria De Filippi nel 2006 e a “The Voice of Italy“ nel 2016.
Ciao Manuel, partiamo dal tuo nuovo album “Libero (I’m free)”, un progetto dal respiro internazionale, cosa rappresenta per te?
«Rappresenta la mia rinascita musicale, ho voluto intitolare questo disco “Libero (I’m free)” perché la canzone che dà il titolo al lavoro parla proprio della mia rivoluzione interiore, ho combattuto i miei demoni e sono riuscito a sconfiggerli, la canzone racconta della forza di volontà nel riuscire a superare quei limiti che ci impediscono di raggiungere i nostri obiettivi. Questo progetto rappresenta una vera e propria rinascita a 360 gradi, sia personale che artistica, è l’album che più mi rispecchia in assoluto, per via degli argomenti autobiografici affrontati all’interno di questo EP».
Un lavoro che vanta prestigiose collaborazioni, chi ha lavorato con te in questo progetto?
«Questo progetto è nato dopo un bellissimo incontro che, grazie alla mia produzione, ho fatto con Numa Palmer e, successivamente, con suo marito Phil Palmer. Sono andato a trovarli a casa, era estate e c’era un caldo torrido, convinto che sarebbe stato un semplice incontro per conoscerci, magari per gettare le basi per una futura collaborazione, invece è diventata una vera e propria audizione, Phil ha preso la chitarra e mi ha chiesto di cantare, cogliendomi completamente alla sprovvista, così ho intonato sul momento “Hallelujah”, poi mi ha chiesto di farne un’altra e ho cantato “Perfect” di Ed Sheeran.
Dopo qualche giorno mi hanno contattato dicendomi che avrebbero voluto lavorare con me, prima per un singolo e poi per un vero e proprio EP. Una sera a cena ho conosciuto Alan Clark, successivamente anche Julian V. Hinton, il quale mi ha regalato diversi brani, tra cui l’unica traccia in inglese “Let out this light”, che teneva nel cassetto da ben vent’anni, aspettava il momento giusto per tirarla fuori perché lo considera uno dei suoi pezzi più importanti, sono veramente onorato di averlo potuto cantare. E’ una canzone speciale, che mi sta dando davvero tante soddisfazioni, tra cui l’attenzione di alcuni grossi discografici statunitensi che si sono mostrati molto interessati all’intero progetto».
Sei tracce in scaletta, musicalmente una diversa dall’altra, quali tematiche e quali sonorità hai voluto abbracciare?
«Ho voluto abbracciare sicuramente delle sonorità internazionali, quelle che ho sempre amato cantare, ovvero il soul e la black music. I temi che affronto sono diversi l’uno dall’altro: “Un angelo per me” è dedicata a mia nonna, una figura molto importante nella mia vita, fin quando ha potuto mi ha sempre seguito ed è stata la mia fan numero uno (sorride, ndr); “Oh Yeah!” è un brano fresco e spensierato, invita a prendere la vita con un po’ più di leggerezza; poi c’è “Libero (I’m free)”, il brano della mia rinascita;
“Questo è il momento” è una canzone che tratta l’argomento della terra in pericolo, sia per quanto riguarda le troppe guerre che per quanto concerne i cambiamenti climatici, problematiche sociali e ambientali davvero importanti; poi c’è un pezzo che si intitola “E si va” e che ho dedicato alle mie migliori amiche, perché l’amicizia è uno dei doni più belli che riceviamo dalla vita; infine “Let out this light” che ho voluto lasciare in totale integrità, sia perché amo cantare in inglese, sia perché mi piaceva piano e voce così com’era».
Come ti sei avvicinato alla musica e quando hai capito che da una grande passione potevi realizzarne un vero e proprio mestiere?
«Ho iniziato a cantare all’età di sei anni, canticchiando le canzoni dei cartoni animati della Disney, mia madre mi dice sempre che l’unico modo per farmi stare buono da piccolo era mettere su un po’ di musica, di conseguenza credo che abbia sempre fatto parte di me. Col tempo ho coltivato questa passione studiando canto, ho preso anche lezioni di musica classica che mi hanno aiutato nell’impostazione della voce, tanta gavetta e tanti palchi importanti, fino ad arrivare al grande pubblico con “Amici”, programma che mi ha davvero cambiato la vita».
Nella nostra precedente chiacchierata mi avevi confessato di amare la musica senza tempo che veniva proposta in passato, sostanzialmente di essere cresciuto a pane, Ray Charles e Stevie Wonder. Quanto è importante, secondo te, approfondire la conoscenza di ciò che è stata la musica per poter comprendere al meglio quella di oggi?
«Studiare la musica è importante, mi riferisco all’approfondire la conoscenza di un artista per cercare di capire chi ha scritto una determinata canzone e perché. Sono cresciuto cibandomi delle produzioni di Stevie Wonder, Ray Charles, Michael Bolton, Whitney Houston e Tina Turner, tutti grandi big della musica dotati di voci immense. Ricordo che a scuola avevamo tutti il walkman, i miei compagni ascoltavano i Lunapop, in quel momento andavano fortissimo con la loro “50 special”, mentre io ascoltavo da solo Stevie Wonder (sorride, ndr), devo ammettere di considerarmi fortunato di essere cresciuto con questi grandi miti come riferimento, perché i loro ascolti mi hanno arricchito tantissimo».
Ti senti rappresentato dall’attuale scenario discografico?
«Sicuramente no, le mode in generale a me onestamente non piacciono, anche se rispetto molto l’impegno e il lavoro di tutti, sinceramente nell’indie e nella trap non ci trovo molto, questi tipi di vocalità sono molto lontane anni luce dal mio mondo. Io sono voluto uscire fuori dal coro ancora una volta, realizzando brani con delle sonorità che sono totalmente contrastanti da quelle che ci sono in circolazione, proprio perché a me non interessa seguire le tendenze del momento.
Ciò a cui ambisco è che le persone apprezzino quello che faccio e di conseguenza quello che sono, non riuscirei a essere finto alle loro orecchie e ai loro occhi, se canti qualcosa che non ti appartiene prima o poi viene fuori, ho voluto essere naturale e non risultare un clone di tanti altri. Fortunatamente il riscontro da parte del pubblico è stato più che positivo, le classifiche sono in continuo aggiornamento, su Spotify abbiamo superato oltre 56.000 streaming nel giro di poche settimane, posso ritenermi davvero soddisfatto, la verità alla lunga ripaga sempre».
Avendone la possibilità, rinasceresti in questa precisa epoca o c’è un particolare decennio che consideri più vicino al tuo modo di intendere la musica?
«Guarda, mi ritengo una persona fortunata per quello che sono e per quello che ho realizzato, indipendentemente da tutto sono felice della mia famiglia e di tutte le persone che mi circondano. Detto questo, se avessi la possibilità di rinascere in un’altra epoca sicuramente mi piacerebbe farlo nel momento in cui è nata la musica gospel, agli esordi, magari in una comunità afroamericana del Bronx, in uno di quei quartieri dove ci sono le chiese con i cori che pullulano di straordinarie voci soul».
Analizzandola a distanza di tempo, cosa ti ha lasciato l’esperienze di “Amici” del 2006?
«”Amici” è stata la mia casa madre, perché mi ha dato davvero la possibilità di farmi conoscere a tutti a 360 gradi. In più, all’epoca era davvero una vera e propria scuola, passavamo tutto il giorno a studiare e a lavorare sodo per migliorarci, quell’anno dovevamo approfondire tutte le discipline, dalla danza alla recitazione, non soltanto il canto, compresa la ginnastica artistica, ricordo in particolare che il nostro insegnante era Jury Chechi… ti lascio immaginare quello che ci faceva fare (ride, ndr) delle cose allucinanti, dal punto di vista fisico è stato quasi un po’ come fare il militare, a parte la ruota che riuscivo a fare da bambino, tutti gli altri esercizi erano impossibili, dalla verticale alla spaccata, per non parlare del flick all’indietro, insomma… cose abbastanza complicate.
In più c’erano degli esami di sbarramento per accedere alla fase del serale, con un ulteriore semaforo da parte del pubblico. Lavoravamo sodo veramente, non è che eravamo là a raccogliere le margherite nei prati di Cinecittà (sorride, ndr), ci facevamo un mazzo serio dalla mattina fino alla sera, arriviamo in albergo stanchi morti, ma felici e soddisfatti perché era quello che volevamo fare. Ogni giorno avevi la possibilità di arricchirti sempre di più, imparando da professionisti di qualsiasi genere. “Amici” mi ha dato la possibilità di incidere “Soli a metà”, il mio primo inedito che mi ha portato tantissima fortuna, è stato in classifica per quattro mesi e ha ricevuto tantissimi riconoscimenti, tuttora molte persone mi fermano ancora per strada e mi dicono di essersi innamorati con quella canzone. Ecco, non c’è gioia più bella».
Non solo dovevate saper fare tutto, in quell’annata c’era davvero tanto talento, ricordo tra gli altri Karima e Federico Angelucci. D’altra parte, però, è stata anche l’ultima edizione senza case discografiche, di conseguenza, non avete avuto la stessa visibilità dei concorrenti che hanno partecipato dalla stagione successiva in poi. Cosa ne pensi a riguardo?
«Non voglio dire che la nostra è stata un’annata sfortunata, perché gli ascolti ci hanno premiato, la compilation ha raggiunto la certificazione del disco d’oro e nelle tappe degli instore c’erano diecimila persone ovunque. Però, le case discografiche sono effettivamente subentrate l’anno dopo, il nostro è stato un esperimento, riuscito, che ha favorito le edizioni successive. Noi abbiamo fatto un po’ da apripista, senza major tuttora ci rimbocchiamo le maniche e continuiamo a fare quello che facciamo con le nostre forze, senza l’aiuto di nessuno».
Dieci anni dopo “Amici”, nel 2016 arriva anche l’esperienza di “The Voice”, com’è andata?
«Subito dopo “Amici” ho fatto delle cose bellissime, trainato dal successo di “Soli a metà”. Ho realizzato diversi spettacoli, conosciuto e collaborato con artisti importanti, come ad esempio Nick Scott, autore di fama internazionale che ha lavorato con Madonna, ma anche qui in Italia ho avuto il piacere di realizzare delle cose con Niccolà Agliardi. Poi, però, nella vita arrivano i momenti in cui si avverte il bisogno di staccare per capire determinate cose, così mi sono preso un anno sabbatico per riscoprirmi.
In quei mesi ho pensato che il modo migliore per rimettermi in gioco fosse partecipare ad un talent e, a dieci anni di distanza dal precedente, ho provato con “The Voice”, una bellissima esperienza che mi ha ridato quell’onda d’urto che mi ha permesso di farmi apprezzare anche da chi non mi conosceva in precedenza. Come coach scelsi Raffaella Carrà, una signora dello spettacolo italiano, conservo ancora i suoi preziosissimi consigli».
Ci sono stati dei momenti nel corso della tua carriera in cui hai ripensato, col senno di poi, a determinate azioni e tornando indietro agiresti diversamente?
«Guarda, prima di partecipare ad “Amici” ricordo che ero indeciso se prendere parte o meno al programma perché ero intenzionato ad iscrivermi alla School of The Art di New York. Preso dalla giovane età scelsi di non partire per andare così lontano, probabilmente lo rifarei, l’unica cosa che cambierei è il modo con cui ho affrontato quell’esperienza, ma anche quelle successive, cercherei di vivermela con più serenità e spensieratezza. Delle volte ti fai prendere dall’ansia e dalla paura, di conseguenza non ti godi il momento, tornassi indietro cambierei solo questo, cercherei più tranquillità».
Rispetto ai tuoi esordi, chi è oggi Manuel Aspidi? Se ti guardi allo specchio che immagine vedi?
«Sicuramente vedo un ragazzo che è cresciuto tantissimo rispetto a quando ha iniziato a muovere i primi passi in questo mondo, un artista che sta continuando a formarsi, perché sono dell’idea che non si deve mai smettere di imparare. Mi reputo una persona diversa, presumo anche migliore, che lotta ogni giorno per far sì che i propri sogni si realizzino, con tenacia e caparbietà, perché gli ostacoli e le batoste sono tanti, bisogna concentrarsi sui propri obiettivi senza fasciarsi troppo la testa e lasciarsi abbattere dalle difficoltà».
Per concludere Manuel, qual è l’insegnamento più importante che senti di aver appreso dalla musica in questi anni di attività?
«Ciò che ho imparato è che niente ti viene regalato, purtroppo. Spesso si dice che chi ha più santi và in paradiso, io non ho ne ho avuti nel mio mestiere, mi sono conquistato tutto con le mie forze e quelle delle persone che hanno creduto in me, compreso il mio attuale team di lavoro, la mia casa discografica che mi sostiene e crede nel mio talento. Nessuno mi ha regalato niente, ogni minima cosa che ho fatto me la sono conquistata e ho dovuto lavorare sodo per raggiungerla. L’insegnamento è proprio questo, bisogna lottare per ottenere ai propri obiettivi e, nel momento in cui li raggiungi, diventa uno dei regali più belli che la vita possa donarti».
Nico Donvito
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