A tu per tu con il cantautore milanese, a poche ore dal suo primo concerto milanese post-Covid
A un anno e mezzo di distanza dalla nostra precedente chiacchierata, realizzata in occasione dell’uscita del suo ultimo disco “Alma“, ritroviamo con piacere Enrico Ruggeri per parlare del periodo storico che stiamo vivendo, della centralità che la musica, l’arte e la cultura devono tornare ad avere per una piena e consapevole ripresa del nostro Paese. Il pretesto è il concerto che andrà in scena questa sera, giovedì 23 luglio 2020, presso il Cortile delle Armi del Castello Sforzesco di Milano, per la rassegna “La Milanesiana”, ideata e diretta da ben ventuno anni da Elisabetta Sgarbi. Ringraziando il cantautore per averci ospitato nel suo studio milanese, vi lasciamo alle sue parole.
Ciao Enrico, bentrovato. Mi fa piacere incontrarti alla vigilia di un concerto speciale, che arriva dopo dei mesi difficili per tutti. Ti esibirai nel cuore della tua città, in uno spettacolo acustico. Chi salirà con te sul palco?
«Saliranno sul palco con me: Davide Brambrilla che suona la tromba, il flicorno, la fisarmonica e le percussioni, Francesco Luppi che suona il pianoforte, ma anche la chitarra acustica, e Paolo Zanetti che suona le chitarre, i mandolini e tutti gli strumenti a plettro. Sarà un concerto intimo e acustico, l’obiettivo naturalmente è che non risulti noioso, non solo per il pathos ma anche per la partecipazione. Divertire ma con intelligenza, come si suol dire».
Milano e la Lombardia sono state ferite, sotto tanti punti di vista, ma questa è una terra forte, popolata da persone provenienti da tutta Italia e da tutto il mondo, persone che si stanno rimboccando le maniche. Come valuti questa ripartenza?
«Beh finalmente, secondo me andava fatta anche prima, pur ricordando che il Covid è stata una falcidia ma, ahimè, nel frattempo sono morte un sacco di persone anche di cancro, di infarto, di ictus, di incidenti domestici e quant’altro. Forse si è fatto un po’ di allarmismo di troppo, questo al di là della solidarietà con la tragedia. Penso che impedirsi di vivere per la paura di morire sia riduttivo della dignità ma, insomma, si sono fatti tanti discorsi in questo senso, per cui andiamo avanti, adesso cerchiamo di costruire pensando a tutti. Mi sembra che in questo momento non siano ripartite soltanto la scuola e i concerti, cioè due dei momenti di aggregazione e di cultura più importanti sono quelli che sono stati dimenticati».
Durante il lockdown sono saltati fuori slogan come “andrà tutto bene” o “ne usciremo tutti migliori”, ma anche discutibili terminologie come “distanziamento sociale” o “congiunti”. Senza dover necessariamente parlare di “migliori” o di “peggiori“, secondo te, come ne stiamo davvero uscendo da tutto questo?
«Come al solito c’è selezione, chi aveva idee non particolarmente interessanti, tutto sommato avrà detto “vabbè sono stato a casa tre mesi, fa niente, ho preso un sussidio, non è grave”, mentre quelli che avevano grandi progetti sono gli stessi che hanno sofferto di più e che, in questo momento, hanno davvero voglia di riprendere e ripartire».
Prima della pandemia, dal punto di vista musicale, eravamo arrivati ad un livello di attenzione ai minimi storici, tutto andava così veloce che non c’era nemmeno il tempo di mettersi ad ascoltare interamente un disco. Pensi che questo scossone emotivo possa aver aiutato da una parte gli artisti a tirar fuori contenuti e dall’altra parte il pubblico a ritornare a sviluppare una maggiore capacità di ascolto?
«Io me lo auguro, quando si dice “speriamo che tutto torni come prima”, personalmente spero che torni meglio di prima. Però, è anche vero che in questi mesi la gente ha pensato meno, perché ha lasciato che gli altri pensassero per lei, non ha più usato la sua testa, ha seguito delle regole senza quasi sapere perché, al di là del senso di responsabilità, in effetti tutti facevano delle cose perché bisognava farle, non perché c’era un ragionamento singolo dietro. Quindi, insomma, pensare che da un momento all’altro ritorni un interesse globale per la musica di qualità e i contenuti mi sembra molto ottimistico, spero che accada ma non sono molto incline a pensare che sarà così».
Sei riuscito a comporre durante il lockdown o hai accusato un po’ il blocco dello scrittore?
«No, ho scritto, soprattutto ho lavorato a un romanzo che, nei miei piani, doveva prendermi due-tre anni, invece l’ho quasi finito perché il tempo a disposizione era maggiore. Ho lavorato via Skype col mio amico cantautore Massimo Bigi, che ha scritto delle canzoni interessanti, ci ho messo mano e ho collaborato con lui alle tracce che comporranno il suo disco che sarà prodotto da me. Non sono stato assolutamente con le mani in mano, anzi, i blocchi non dovrebbero mai avvenire, soprattutto nei momenti difficili».
La parola Sanremo sembra così diametralmente lontana nel tempo, sia per la precedente che per la prossima edizione, ma con le polemiche è come se fosse già cominciato il conto alla rovescia. Partecipare per la dodicesima volta al Festival è attualmente tra i tuoi piani?
«Per ora no, io non ho mai fatto carte false per andare a Sanremo ma neanche carte false per non andarci, tanto è vero che sono andato un sacco di volte. Adesso vediamo un attimo che succede, qua si naviga tutti un po’ a vista, se i miei progetti si sposano con il Festival perché no? E’ una manifestazione che segue l’andamento della società e della musica italiana, la mia prima partecipazione risale al 1980 e l’ultima nel 2018, entrambe con i Decibel, quindi in trentotto anni ne ho viste di tutti i colori».
Avendone viste di tutti i colori, come valuti l’evoluzione della manifestazione negli anni?
Naturalmente Sanremo in quanto amplificatore di uno stato di cose ha avuto canzoni meravigliose e cialtronate orribili, quello che posso dire è che ci sono tre gradi di giudizio: quello delle giurie, perché al sabato sera il premio qualcuno se lo deve portar via; poi ci sono le vendite, in particolar modo oggi parliamo di streaming; ma in realtà la vera giuria è il tempo, per cui ci sono canzoni che rimangono, per fortuna qualcuna anche mia. Pensare che al concerto di domani sicuramente mi chiederanno “Contessa”, una canzone che ha appena compiuto quarant’anni, è una soddisfazione di gran lunga superiore alla vittoria stessa, durare nel tempo dovrebbe essere l’obiettivo primario di qualsiasi artista».
Ti è piaciuta l’ultima edizione del Festival condotta da Amadeus?
«L’ho seguita un po’ distrattamente perché stavo già preparando la puntata di “Una storia da cantare” che andava in onda una settimana dopo. C’era un po’ di tutto, Amadeus è stato bravo a raccogliere vari settori della musica, poi c’erano molti pezzi che non erano stati fatti per piacere di certo a me, sono andati benissimo, ma mica sono stati concepiti perché fossi contento io, ecco (sorride, ndr)».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica in tutti questi anni di carriera?
«Sollevare delle domande, ampliare dei ragionamenti, insegnare alla gente che condividere le emozioni stando assieme è una sensazione molto bella e forte, rispetto alla diretta streaming fatta dal cantante in pantofole che strimpella una canzone, che non è nemmeno lontanamente paragonabile al piacere di stare sotto un palco a vedere un concerto. La musica è questo, ha segnato la nostra vita, ognuno di noi ha dei pezzi ha dei pezzi che sono stati fondamentali. Ci sono anni nei quali la musica ha cambiato il mondo e ha fermato le guerre, oggi è un po’ più un intrattenimento o un divertimento, come dicono i Premier, per cui è un’altra cosa… ma all’interno di questo futile divertimento ci sono delle cose molto importanti».
Nico Donvito
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