Un libro, una canzone: insieme
Quando Ilario Luisetto, persona molto paziente e professionale – nonché direttore di questo sito – ha proposto una nuova rubrica capace di conciliare musica e letteratura ho pensato: ‘wow’. Poi mi ha spiegato personalmente quello che aveva in mente dando al sottoscritto l’incarico di portare avanti il progetto; allora l’ho proprio esclamato: ‘wow’. Infine, dopo aver scritto la prima bozza di questo articolo, un’insurrezione gastrica nelle viscere del mio critico pensiero letterario ha preso parola con un lapidario: ‘bleah’.
Questo perché, in mia umile e timidissima difesa, scrivere di libri e di musica è davvero difficile. Non tanto perché sia necessario farsi un minimo di cultura – in qualche modo uno quella ce la si costruisce – ma piuttosto perché lì, dentro, nella musica e nei libri, c’è tutto un mondo. Il mio, il tuo, il nostro. Capite allora che è come camminare bendati su una fune sopra un precipizio con il rischio di cadere in una delle peggiori trappole mortali della nostra epoca: la banalità.
Dunque mi ritrovo ancora a pensare e a chiedermi dove e a cosa porterà questo nostro viaggio, caro lettore. E la prima domanda è proprio questa: come si possono collegare mondi come la letteratura e la musica? In realtà, collegati, lo sono già. Basti pensare a quante canzoni contengono frasi o citazioni di libri e quanti libri contengono frasi o storie narrate dai cantanti. Non serve un Nobel a Bob Dylan per capire che letteratura e musica sono spesso e volentieri mondi molto vicini e comunicanti. Cercheremo in questo viaggio di esplorare al meglio queste due navi sulle quali siamo saliti tutti e sulle quali tutti noi abbiamo ancora tanto da viaggiare. Ho scritto “cercheremo” perché oltre al sottoscritto ci sarà anche un’altra autrice ed esperta in letteratura. Nella normalità a volte ci scontriamo e dibattiamo con una notevole dose di energia, ma qui saremo pacifici e cordiali. Forse.
Per farvi capire come funzionerà questa rubrica, la spiego in quattro parole molto semplici: un libro, una canzone. Ogni tanto forse sgarreremo ma questo perché è nell’indole intrinseca di noi autori trasformare le cose che creiamo nel loro esatto contrario. In ogni caso, sarà un viaggio in cui ruberemo un po’ ovunque, nella letteratura così come nella musica. Perché rubare nella cultura è l’unico modo per non essere prigionieri. Ed è infatti dalla prigionia che rubiamo il libro di oggi, ovvero: Diario Clandestino, di Giovannino Guareschi.
C’è da dire che con Guareschi ovunque peschi, peschi bene, grazie ai suoi personaggi indimenticabili (sia lode a Don Camillo e Peppone) ma anche al suo stile unico, leggero ed inimitabile. Nonostante ciò, in questo libro si affronta una tematica più che complessa e decisamente poco leggera: la prigionia di guerra. Un libro che non si può leggere senza avvertire nelle ossa di Guareschi, in ogni pagina che si svoglia, una irrefrenabile fame, un freddo glaciale, una solitudine sorda. Non ci sono buoni, né cattivi. Solo tanta miseria e al centro l’uomo fragile in cerca di dignità. Guareschi la trovava in ogni frase che scriveva, grazie alle sue lettere al figlio, alla moglie e all’Italia intera. Tutto senza mai cadere neanche una volta nella banalità o nel dramma. Capite, dunque, che se un uomo riesce a farti sorridere e commuoverti raccontandoti i suoi due anni di prigionia, o quell’uomo è un pazzo o è un genio. Oppure è Guareschi che nel dubbio è entrambe le cose. Mi ricorda una canzone di Giovanni Allevi molto tenera, chiamata (manco a farlo apposta) Ti scrivo. Una tenerezza sottile, densa di tristezza forse, ma leggera come il vento.
E forse è proprio quella lì, la differenza. Non fra il bello e il brutto, ma fra il vuoto e l’eterno. Così che laddove tutti vedono una nota, Allevi vede una sinfonia; laddove c’è una prigionia, Guareschi vede domande; laddove c’è il vuoto, l’artista e il folle vedono l’eterno.
Non bisogna andare in un campo di prigionia e non bisogna neanche essere dei pianisti internazionali per desiderare l’eterno. Bisogna solo pazientare, soffrire le proprie pene, sopportare questo mondo bizzarro e scombussolato; e poi, nel momento opportuno, tirare fuori la propria eternità, anche con una semplice lettera al figlio scritto in un campo sperduto nella Polonia più fredda. L’eternità è fatta di gesti semplici. Come questo estratto dal suo diario.
19 dicembre 1944
Lettera da casa:
A Carlottina stanno spuntando quattro dentini e ha imparato a dire “No!”
Anch’io ho imparato a dire “No!” ma c’è voluta una guerra mondiale.
Un sorriso, forse una lacrima, e un desiderio di eternità.
Tutto ciò che serve per essere uomini, alla fine.
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