A tu per tu con l’artista campano, in uscita con il suo nuovo progetto discografico intitolato “Mielemedicina“
Tempo di nuova musica per Marco Anastasio, in arte semplicemente Anastasio, vincitore della dodicesima edizione di X Factor. A due anni di distanza dalla sua partecipazione al Festival di Sanremo, il cantautore campano torna sulla scena musicale con “Mielemedicina”, un album scevro da etichette, coerente nei suoni e nelle intenzioni. Dalla prima all’ultima traccia, si sente una grande ricerca nelle strumentali, nei testi, ma anche nell’utilizzo della voce. Il risultato è una panoramica nitida e autentica sul mondo dell’artista, tra poesia e realtà.
Ciao Marco, benvenuto. Partiamo da “Mielemedicina”, a cosa si deve la scelta del titolo?
«La scelta del titolo nasce da un’antica citazione di Lucrezio: come il medico cosparge il bordo della coppa di miele per far bere l’amaro assenzio al bambino, così col bel verso io vi rimando i miei messaggi amari. In tal senso, i pezzi più dolci di questo album sono anche quelli dal retrogusto più amaro dal punto di vista contenutistico».
Quali skills pensi di aver maturato in questi due anni rispetto all’uscita del precedente lavoro “Atto zero”?
«A parte un po’ di canto che ho raffinato, credo che il modo di scrivere sia maturato molto, anche grazie alle mie recenti letture poetiche. La poesia mi ha aiutato tanto nello sviluppare e nel perfezionare un mio stile. Tra gli autori che mi hanno ispirato, cito su tutti Massimo Ferretti, ma anche Baudelaire. Sai, la poesia è un mondo in cui è difficile accedere, nel senso che è qualcosa che devi trovare nel momento giusto del tuo percorso di vita. Un libro di poesie lo leggi e può sembrarti un’insalata di parole, mentre il giorno dopo può essere illuminante».
Il rap ha un linguaggio più crudo e concreto di quello poetico, le immagini e i riferimenti sono certamente più diretti. Alla fine io credo che tu sia riuscito ancora una volta a confluire questi due mondi, lo avevi fatto in passato con “Correre” e in questo disco ci sono diversi pezzi che vanno in quella direzione, ad esempio “Simbolismo”…
«Sì, anche “Simbolismo” è un pezzo che ha molte caratteristiche poetiche. Alla fine, però, io non rinuncio alla forma del rap, la utilizzo spesso. Secondo me è interessante provare a sperimentare un linguaggio diverso rispetto a quello canonico, anche se non sono l’unico a farlo e non mi ritengo affatto un innovatore. Ci sono tanti bravi colleghi che si approcciano a questo genere in maniera poetica, non sono stato di certo il primo».
Di recente hai rivelato sui social quella che potrebbe essere la tua personale prima regola del Fight Club, ovvero: mai abituare il pubblico. In un’epoca in cui le mode non si cavalcano ma addirittura si surfano, cosa ti spinge con tale fermezza a concentrarti unicamente sul tuo percorso tenendoti lontano dalle regole del mainstream e dalle zone di comfort?
«Per me è quasi una faccenda morale, alla fine credo si possa fare un po’ tutto e calarsi in qualsiasi ambiente, proprio come ho fatto io partecipando ad un talent o a Sanremo, basta che alla fine non ti ritrovi a tradire la tua idea di musica e, onestamente parlando, penso di non averlo mai fatto. Poi, ogni tanto, capita anche di creare durante la fase produzione di un pezzo qualcosa che strizzi l’occhio al mainstream oppure un brano che abbia le caratteristiche di un singolo. Personalmente, però, il risultato mi soddisfa solo quanto tutto questo nasce spontaneamente, se mi sedessi ad un tavolino realizzerei di sicuro qualcosa di fiacco. Non sono un mestierante in tal senso, non è il mio, c’è chi lo sa fare benissimo per lavoro, mentre realizzare un pezzo radiofonico per me è un processo assolutamente spontaneo».
Nel tuo stile rivedo alcune sfumature rap del passato, oltre che una netta matrice contemporanea, sia a livello stilistico che di linguaggio. Pensi che la tua musica possa rappresentare una sorta di anello di congiunzione tra l’old school e la new school?
«Beh sì, io cerco di essere classico e moderno insieme, possono sentirsi a volte dei riferimenti del passato perché nella mia formazione ho ascoltato tante produzioni realizzate in precedenza. Il mio pubblico è molto vario, per quello che mi riguarda provo a fare il mio. Per ogni nota che esce fuori, sia classica che moderna, si tratta di mie reminiscenze, non è qualcosa di macchinoso o di troppo pensato. Tendenzialmente non sono un nostalgico, sono contento che il passato sia passato e che il presente sia qui».
Per concludere, quali elementi e quali caratteristiche ti rendono orgoglioso di un disco come “Mielemedicina”?
«Credo che sia un disco pensato e non buttato lì tanto per… un album maturo e vario. Credo che in questo lavoro ci sia la mia maturità e penso che sia percepibile, mi piacerebbe che qualcuno percepisse questo mio essere in continua crescita».
© foto di Valerio Nico
Nico Donvito
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