A tu per tu con il cantautore tarantino, vincitore della 70esima edizione del Festival di Sanremo
Ciao Antonio, bentrovato. Sei il vincitore della settantesima edizione del Festival di Sanremo, ti sei aggiudicato anche il Premio della Critica Mia Martini e il Premio della Sala Stampa Lucio Dalla. Insomma, hai fatto triplete. Di riconoscimenti in questo periodo ne stai ricevendo parecchi, ma qual è la cosa che ti rende più felice? La gratificazione più grande?
«Sicuramente quella che mi sta dando la gente, le persone che mi scrivono, che condividono le mie canzoni e che, in qualche modo, mi lasciano entrare nelle loro vite. L’aspetto più bello è stato ricevere messaggi che non contenevano soltanto il “bravo, bravissimo”, ma dicevano “grazie, per avermi regalato un’emozione” oppure “grazie perché la tua vittoria ci appartiene” perché fa parte di una visione di vita e di un certo tipo di percorso in cui tanti si stanno riconoscendo. Questo mi fà veramente sentire bene ed emozionare tanto, li ringrazio di nuovo».
“Fai rumore” è un invito ad abbattere le barriere dell’incomunicabilità, a bruciare quei silenzi che spesso creano distanze. Cosa ti ha ispirato questo tipo di riflessione?
«Sono stato ispirato dal vissuto, dalle sensazioni che ho provato e che ho cercato di mettere in musica. Credo ci sia dentro un po’ anche la società, perché si parte sempre raccontando una propria intimità per poi spostarsi in un altro terreno, che non appartiene più solo a te. Viviamo in un periodo in cui paradossalmente di rumore ce n’è tanto, ma è un rumore che manca di umanità, c’è tanta gente che urla perché cerca di far prevalere le proprie idee o che alimenta le paure altrui per avere dei riscontri. C’è poco dialogo, questa canzone vuole essere un invito al confronto, scegliendo le parole giuste, facendo arrivare anche il proprio dissenso, ma con la massima umanità possibile».
«La gavetta serve proprio in questi momenti, ti aiuta a rimanere coi piedi per terra, ad essere anche più felice, no? Perché consideri questi riconoscimenti un po’ come dei premi ad un percorso, per cui la gavetta mi ha aiutato tanto, la consiglio a tutti. Poi, insomma, non per forza bisogna soffrire tanto per raggiungere degli obiettivi e per crescere, a me è andata in un certo modo e ne sono felice, perché mi permette di pensare a tutto come un percorso più lungo e quindi, magari, con un respiro anche più ampio».
Circa sette anni fa è uscito il tuo primo disco intitolato “E forse sono pazzo”, se avessi la possibilità di parlare con quell’Antonio che aveva mollato tutto per dedicarsi completamente alla musica, oggi, cosa gli diresti?
«Bravo, bravissimo (ride, ndr), hai fatto bene ad essere un pazzo! Ma, guarda, non per i successi o i riconoscimenti perché mi sento ancora all’inizio, più che altro perché la mia vita è cambiata, è diventata più bella e più intensa. Mi sveglio molto spesso la mattina con la voglia di fare, di esprimere me stesso, per questo gli direi “bravo!”».
Per concludere, il tuo è sicuramente un bell’esempio, la dimostrazione che attraverso la gentilezza, l’educazione, la poesia e la preparazione si può arrivare lontano, magari ci metti un po’ più di tempo, ma al traguardo ci arrivi comunque. Questo è sicuramente quello che hai insegnato a tutti noi, ma tu cosa hai imparato di nuovo da questa esperienza?
«Ho imparato che volersi bene, in qualche modo, ti aiuta a fare cose belle, perché in passato mi è capitato spesso di affezionarmi alla malinconia e al dolore. Ho imparato che quando cerchi di mettere un’energia positiva in tutto quello che fai, in ogni giornata, in ogni sacrificio, in qualche modo ti ritorna sempre indietro qualcosa di positivo».
Nico Donvito
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