Cosa ci si aspetta dagli italiani musicalmente
E’ tempo di manovre economiche e, solitamente, il motto principale dei politici italiani (almeno fino a qualche tempo fa, ora le cose paiono essere piuttosto cambiate nel bene o nel male) era: “ce lo chiede l’Europa”. Ebbene si, se è qualcuno d’importante a chiedere spesso e volentieri non rimane altra scelta che obbedire o, perlomeno, cercare di riportare a proprio vantaggio la richiesta per quel che si può. E se la politica si deve concentrare sui bilanci, sui debiti, sul PIL o l’inflazione anche la musica (e l’industria musicale soprattutto) deve fare, prima o poi, i propri conti.
Sono anni magri, lo si è detto mille volte, ma, purtroppo per noi, non si vede ancora alcuna luce in fondo al tunnel malgrado ci sia chi, bugiardamente, sostiene che l’avvento dello streaming legalizzato, della digitalizzazione sempre maggiore della musica e della massimizzazione di un’offerta selezionata porteranno alla fine di questa buia epoca per il mercato discografico globale. Non è così: Spotify non riuscirà mai ad assicurare i guadagni che permetteva la vendita fisica di un disco, la concentrazione del mercato in un’offerta più limitata non riuscirà ad alzare nuovamente il livello qualitativo della proposta e la digitalizzazione dell’intero catalogo musicale della storia umana non saprà restituire l’emozionalità del suono di un vinile o di un’esperienza live.
Detto ciò, però, ci si dovrà accontentare delle poche briciole che rimangono (e che a furia di essere beccate rimarranno sempre meno) per cercare di tirare avanti la carretta sfruttando i momenti buoni di un’artista per poi scaricarlo e cercarne uno nuovo o proponendo stupide canzonette stagionali, prodotte al computer per risparmiare sui musicisti, da dimenticare dopo poche settimane di alta rotazione radiofonica (spesso dietro compenso).
Ma se questo è il destino della discografia globale che ne sarà, nello specifico, della nostra cara vecchia musica italiana? Probabilmente nulla di diverso da quanto accadrà in tutto il resto del mondo con la differenza che, probabilmente, la compressione di mercato sarà ancora maggiore e sapete perchè? Perchè gli italiani saranno sempre meno (lo dice l’ISTAT nelle sue proiezioni demografiche) e perchè, ahimè, i margini per una esportazione fuori dai confini nazionali (unica ricetta possibile per tornare ad espandere il bacino di riferimento) sono alquanto irrisori.
Ed eccoci giunti al punto focale di tutto questo discorso. Perchè gli italiani all’estero non funzionano più come un tempo? Certo, il problema della lingua è tutt’altro che irrisorio ma, d’altro canto, bisogna ammettere che non è una scusa plausibile perchè anche Pavarotti, Al Bano, Toto Cutugno o Domenico Modugno cantavano in italiano, eppure, hanno saputo conquistare il mercato estero. Lo hanno fatto anche Laura Pausini, Zucchero ed Eros Ramazzotti spesso traducendo i propri brani e adottando lingue estere. Ci sono stati, poi, anche Andrea Bocelli o Il Volo che hanno fatto leva sul bel canto per espandersi e dominare le scene globali del genere pop-lirico. Oggi, però, nessun altro artista italiano è riuscito ad affermarsi davvero fuori dai confini: c’hanno provato Alessandra Amoroso, Marco Mengoni ed Emma ma con risultati non così degni di nota, addirittura Tiziano Ferro negli ultimi tempi pare aver rinunciato abbondantemente al mercato sudamericano e spagnolo.
Dove sta, dunque, il problema? Probabilmente la soluzione sta nell’offerta, nella scelta musicale che si compie alla base e che, evidentemente, non è quella che “il mondo ci chiede” per funzionare e risollevare le nostre sorti discografiche e musicali. L’ultimo record italiano risale a qualche giorno fa quando Andrea Bocelli con il suo album d’inediti Si è riuscito a conquistare la prima posizione nella classifica di vendita sia negli USA che in Inghilterra (primo italiano nella storia a compiere tale “miracolo” discografico). Eppure in Italia, suo Paese natale, il disco è debuttato soltanto in sesta posizione. E’ evidente che c’è un certo scollamento tra ciò che gli italiani paiono apprezzare e ciò che, invece, il mondo apprezza della musica e dell’arte italiana.
Quando i colossi della musica italiana nel mondo si ritireranno e lentamente scompariranno (speriamo il più tardi possibile) chi si assumerà l’incarico di esportare melodia, canto e parole italiane nel mondo con la nostra tipica forma canzone? Probabilmente nessuno e questo perchè in Italia sono rimasti davvero in pochi a farlo, a proporlo prima di tutto al mercato interno. Come possiamo pensare di esportare un qualcosa che non esiste? Ma, soprattutto, come possiamo esportare un qualcosa che noi stessi abbiamo importato (e peggiorato) come il rap, la trap, l’elettronica, l’electro-pop, la dance music, il reggaeton?
Per fare un parallelismo con l’ambito culinario, altro settore in cui l’Italia da sempre dice la sua con sufficiente forza, esportare la trap o l’electro-pop sarebbe un po’ come voler esportare il cacao, la patata americana o il pomodoro: molto meglio”limitarsi” a continuare ad esportare con successo la buona pizza napoletana. Il mondo non ha interesse verso ciò che già ha, lo ha, però, per ciò che l’Italia da sempre sa proporre con successo e che, ahimè, rischia di perdere per sempre insieme all’immensa possibilità di guadagno economico. Se non lo facciamo per l’arte, facciamolo almeno per i soldi che, fino a prova contraria, ci servono per produrre anche tutta quella spazzatura che oltre le Alpi non ci compra più nessuno!
Ilario Luisetto
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