A tu per tu con l’artista marchigiano, in uscita con il suo quarto album in studio intitolato “Rock’n’love”
Non conosce confini la passione nei confronti della musica di Matteo Orizi, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Matthew Lee: compositore, cantautore e pianista di fama internazionale in uscita con il suo nuovo lavoro discografico intitolato “Rock’n’love”, disponibile per Decca Records/Universal Music Group a partire dallo scorso 25 settembre. Un progetto che lo rappresenta totalmente e che mette in risalto la sua anima rock con l’approccio più melodico, il sogno americano con la propria italianità. Conosciamolo meglio.
Ciao Matteo, benvenuto. Partiamo da “Rock’n’love”, un album che raccoglie undici canzoni che mettono in risalto la tua attitudine rock, ma anche quel trasporto più romantico, che ti contraddistingue e appartiene in egual misura. Come sei arrivato a questo risultato?
«E’ stata un’esigenza fondamentale, mostrare un lato di me che negli altri lavori non era stato ancora svelato. Sono un grande fan dei coorner americani, mi piacciono le belle melodie italiane. Il processo che ci ha portato a creare questo disco di undici tracce, sette originali e quattro cover, è stato lungo… pensa che avevamo composto una quarantina di inediti, di conseguenza abbiamo scelto quelli che reputavamo migliori».
Tra gli inediti spunta la tittle-track eseguita in coppia con Paolo Belli, com’è avvenuto il vostro incontro?
«Con Paolo ci conosciamo da tempo, ci eravamo sempre ripromessi di fare qualcosa insieme. L’occasione è arrivata quando mi sono ritrovato in studio insieme ai chitarristi Gennaro Porcelli e Frank Carrera. Tra le varie canzoni scritte c’era proprio “Rock’n’love”, ho pensato subito fosse perfetta per Paolo. L’ho chiamato, ha risposto in maniera entusiastica e nel giro di un ora mi ha mandato la prima stesura di testo».
La produzione è affidata a Brando, qual è stato il suo apporto concreto in questo lavoro?
«Brando l’ho voluto fortemente in questo lavoro, abbiamo scelto insieme le canzoni originali, lui mi ha proposto anche le quattro cover. Il suo apporto è stato incredibilmente importante, è un produttore che ha alle spalle un background come il mio, ma ne sa anche più di me per quanto riguarda il rock’n’roll, il che è tutto dire. Credo sia riuscito a dare l’apporto perfetto, perchè quando realizzi un disco diciamo “alla vecchia”, tutto suonato dal vivo, hai bisogno di qualcuno che renda in qualche modo mainstream il risultato finale. In questo Brando è stato fondamentale».
Avendo a vostra disposizione il vastissimo firmamento della musica italiana, com’è avvenuta la scelta delle quattro cover?
«Innanzitutto perché sono quattro grandi canzoni, a parer mio il loro valore è rimasto intatto nel tempo. Andrebbero solamente riscoperte, anche se parliamo di pezzi che non sono stati affatto dimenticati, anzi, ma non credo che abbiano oggi la considerazione che meritano realmente. La scelta è avvenuta pensando allo stile, al mio modo di pensare, ma anche al brivido che ho provato ascoltandole.
“Io ti darà di più” è la mia preferita delle quattro, ha un testo bellissimo, mi ha colpito nel cuore, l’ho sempre reputata una canzone elegantissima. Poi c’è “Il mondo”, originariamente arrangiata da Ennio Morricone. Qui il nostro intervento è stato massiccio, perchè abbiamo stravolto l’arrangiamento per rendere il brano radiofonico per il 2020.
“Come te non c’è nessuno” è un omaggio a Rita Pavone, una grandissima artista. Penso che noi italiani dovremmo avere più rispetto per queste grandi personalità, come lo hanno in America ad esempio per Tony Bennett, perchè il tempo passa per tutti, ma l’artista resta. L’ultima è “Senza fine”, che dire? Gino Paoli è un grande maestro, ha saputo scrivere melodie semplici e immortali».
Ma cosa hanno di preciso quegli 88 tasti in più rispetto alle corde di una chitarra, ai pistoni di una tromba e via dicendo per tutti gli altri strumenti presenti sul pianeta?
«Personalmente mi piace molto anche la chitarra, ma non ti da quella stessa pienezza. Il pianoforte è un’orchestra, un’orchestra sotto le dita».
Qual è il tuo pensiero sull’attuale contesto musicale? Cosa ti piace e cosa non?
«Mi reputo sia fan della tradizione che dell’innovazione, mi piace mescolare entrambi gli elementi per dar vita a qualcosa di nuovo. Per quanto mi riguarda sono molto proiettato in un discorso americano, ascolto praticamente per il 99,9% canzoni provenienti da movimenti statunitensi. Credo che in Italia abbiamo un problema: non tutta la musica viene rappresentata, si tende a concentrarsi su un numero limitato di generi. Non ho niente contro la trap o il reggaeton, anzi, è giusto che ci siano è che coprano una nutrita fetta di mercato. Funzionano, ma è necessario offrire al pubblico delle alternative. Dall’altra parte dell’oceano questo avviene, se vuoi ascoltare country trovi delle emittenti radiofoniche specializzate solo in quello. La musica suonata esiste ancora, per cui la torta dovrebbe avere diversi sapori, qui siamo un po’ troppo monocorda».
Bello sarebbe se il mondo mainstream italiano strizzasse più spesso l’occhio verso qualcosa di diverso e di più ricercato, accontentando anche fette di mercato meno rappresentate. Anche perchè quando questo succede ci ritroviamo Raphael Gualazzi come vincitore di Sanremo Giovani, oppure mi viene in mente quando tu stesso ti sei aggiudicato il titolo del Coca Cola Summer Festival nel 2015, una manifestazione tutt’altro che “di nicchia”… Cosa pensi a riguardo?
«Penso che sia un problema di industria, bisognerebbe educare il pubblico dando spazio anche ad altre forme, a dare la giusta attenzione alla musica. Nel mio caso è nato tutto in famiglia, mio padre è musicista e mia madre una grande ascoltatrice, loro mi hanno trasmesso la passione per la musica da due angolature diverse. Da piccolo avevo le cassette di Max Pezzali, ho condotto una vita normale diciamo (sorride, ndr). Ascoltavo ciò che andava per la maggiore negli anni ’90, comprese le sigle dei cartoni animati di Cristina D’Avena. Ho vissuto normalmente, però avevo in casa qualcuno che mi dava la possibilità di ascoltare anche il resto. E’ importante sapere chi sono i Led Zeppelin, conoscere Elvis Presley oppure Elton John, perchè questa gente ha cambiato il mondo».
Per concludere, a proposito di insegnamenti, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica fino ad oggi?
«Guarda, una sola: fai quello che vuoi, la verità. Sai, nell’industria musicale capita di avere a che fare con persone che ti dicono cosa fare… Il segreto sta nel cercare di trovare sempre il compromesso migliore per se stessi, bisogna essere onesti e sinceri con il pubblico. Non voglio fare l’americano, io sono un italiano che ha una cultura musicale di un certo tipo, che ha studiato e coltivato dei gusti molto definiti. Suono in un certo modo perché, fondamentalmente, di carattere sono fatto così».
Nico Donvito
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