A tu per tu con l’artista bresciano, in uscita con il suo terzo progetto discografico intitolato “Petrichor“
A un anno di distanza dalla nostra precedente chiacchierata, ritroviamo con piacere Mattia Berlardi, alias Mr. Rain, per parlare del suo nuovo album “Petrichor”, un titolo che significa letteralmente “profumo della pioggia”, la stessa che ha sempre accompagnato e ispirato le produzioni del giovane artista bresciano.
Ciao Mattia, bentrovato. Partiamo da una panoramica generale di “Petrichor“, com’è cominciato e come si è svolto l’intero processo creativo?
«La prima traccia che ho realizzato è stata “Fiori di Chernobyl“, canzone che mi ha dato voglia di scrivere e l’ispirazione per farlo. L’album racconta il viaggio introspettivo alla scoperta di me stesso, parlo di queste due figure che vivono dentro di me, sempre in conflitto, in guerra tra loro. Una corrisponde all’artista, l’altra a Mattia, un ragazzo normale che sacrifica tempo e legami per la musica e tutto ciò che la circonda. Alla fine mi sono fatto una promessa, quella di ricominciare da me come persona, trovando un punto di equilibrio tra queste due entità».
Quelli riflessioni e quali stati d’animo ti hanno accompagnato durante la fase composizione?
«Un po’ tutto quello che mi è capitato nell’ultimo anno. Questi lockdown in completa solitudine mi hanno permesso di lavorare molto su me stesso, di imparare a conoscermi, comprendendo a cosa è bene dare priorità o meno. Non c’è un argomento che prevale sugli altri, sono tutte esperienze, pensieri, sensazioni e sogni che ho vissuto in questo periodo».
Quali skills pensi di aver acquisito durante la composizione di queste tracce?
«Innanzitutto ho cambiato il mio approccio al lavoro, scrivo meno di getto, mi è capitato di mettere mano più volte sui testi, per non avere poi dei rimorsi. In passato mi era capitato di ripensare a versi che avrei potuto buttare giù diversamente, mi sono impegnato per migliorare sia l’aspetto compositivo che produttivo. Non a caso, per questo album mi sono valso della collaborazione di una mini orchestra vera. Il 95% di quello che sentirete è suono organico, amo produrre e perdermi in queste cose. Chi non è all’interno di questo mondo può non comprendere la differenza, ma credo che inconsciamente doni decisamente più valore».
“Fiori di Chernobyl” è stata una delle canzoni più ascoltate a amate durante il lockdown. Nell’album ci sono altri pezzi che consideri dei potenziali manifesti per questa attuale fase?
«Secondo me, potrebbe essere molto contestualizzata “A forma di origami”, sicuramente. Ora che mi ci fai pensare, però, ti direi anche “Sentieri sulle guance”. Per me sono queste due le canzoni che meglio si avvicinano alla situazione che stiamo vivendo oggi».
Tu come lo stai affrontando questo momento? Il timore è che tutto questo possa diventare una specie di abitudine dopo quasi un anno, no?
«Potrebbe sembrare scontato, ma incrocio pure le dita dei piedi, sperando che tutto questo finisca presto, o perlomeno che si inizi a intravedere una fine, tornando il prima possibile ad una parvenza di normalità. Parlo in generale, ma anche per noi musicisti e tutte le persone che lavorano intorno al palco, tecnici e fonici. La musica live è l’unica cosa che si è fermata e non è mai più ripartita. Spero che si smuovi qualcosa perchè è veramente importante. Non dico di tornare indietro al 2019, però non possiamo continuare così. Personalmente mi mancano tantissimo i concerti, anche da spettatore, un’esperienza che non considero replicabile attraverso lo streaming».
Per concludere, quali sono gli elementi e le caratteristiche che ti rendono più orgoglioso di questo album?
«Sicuramente le strumentali, tutte completamente diverse l’una dall’altra. Anche i featuring, perchè sono sogni che si realizzano, a partire da Tommee Profitt che ha prodotto “A forma di origami”, passando per Hopsin un artista gigantesco, per me è stato come collaborare con Eminem o Macklemore, fino ad arrivare a Birdy, che seguo da cinque-sei anni, abbiamo una sensibilità molto simile. Li ho contattati tutti su Instagram, sono stati disponibili e hanno sposato sin da subito il progetto. Credo sia l’album in cui ho messo più cuore, di questo ne sono davvero orgoglioso».
Nico Donvito
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