A tu per tu con il cantautore torinese, in uscita dal 24 maggio con il suo quinto album “Affetto placebo”
“Debolezza che diventa forza e sconfitte che diventano vittorie”, questo il bel messaggio contenuto allineano di “Affetto placebo”, il nuovo progetto discografico di Alex Andrea Vella, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Raige. In un’epoca in cui si tende a parlare di tutto senza soffermarsi su niente, l’artista piemontese racconta il suo vissuto, sviscerando le proprie debolezze. A tre anni dall’uscita del suo precedente lavoro, intitolato “Alex”, e dalla partecipazione a Sanremo 2017 in coppia con Giulia Luzi, lo ritroviamo in perfetta forma artistica, consapevole e determinato nel perseguire i propri obiettivi, sia personali che professionali.
Ciao Alex, parliamo del tuo nuovo album “Affetto placebo”, cosa racconta?
«Racconta di me, della mia storia, di sconfitte che diventano vittorie, del riuscire ad accorgessi di come, col tempo, i punti deboli possono diventare dei veri e propri punti di forza».
Lo hai definito il tuo disco più sincero, perché?
«Perché ho deciso di mettere in primo piano le mie fragilità, sin dalla copertina ritraente un blister, che sta a simboleggiare l’affetto come cura possibile al mio mal di vivere, l’essere riuscito a creare negli anni dei legami veri che mi hanno fatto da scudo alle difficoltà che possono capitare nella vita di tutti i giorni. Ascoltando l’album si percepisce sin da subito una grande trasparenza, la sincerità viene fuori in maniera prepotente».
L’affetto, quindi, può essere anche la cura per l’apatia generale che affligge oggigiorno la nostra società?
«Secondo me sì, perché tutto va ormai troppo veloce, la musica è diventata usa e getta, si cerca la soluzione più rapida, ormai sui social tutto è istantaneo e dura per ventiquattrore. In questo momento storico manca il potersi fermare ed osservare con coscienza le proprie cose e cercare di trovare la giusta dimensione. In questo le persone e i rapporti giocano un ruolo fondamentale».
La scaletta è composta da undici brani inediti, più quattro bonus track, dal punto di vista musicale quali sonorità hai voluto abbracciare?
«Per quanto riguarda il discorso musicale, mi sento di ringraziare il produttore Roofio che ha saputo mediare tra quelle che sono le mie peculiarità, sia melodiche che di scrittura, con l’esigenza di trovare un sound fresco e che non somiglia a ciò che c’è già in giro. Il risultato è un mash-up di vari generi, la cui base è certamente la musica urban».
Nel corso della tua carriera hai lavorato con vari esponenti della scena rap italiana, da Salmo a Emis Killa, passando per tuo fratello Ensi, oltre ad alcuni assoluti protagonisti della scena pop come Annalisa e Tiziano Ferro. Qual è il tuo pensiero riguardo le collaborazioni?
«Le contaminazioni musicali sono importantissime, perché dall’unione di due cose belle non può che nascere qualcosa di bellissimo. In Italia siamo indietro di circa dieci o quindici anni rispetto alle altre scene musicali, però abbiamo i nostri punti di forza, ad esempio la scuola di parolieri è in assoluto la migliore rispetto a tutte le altre a livello mondiale, per via della gigantesca cura dei testi che proviene dal cantautorato, un’eredità incredibile che rimarrà indelebile per sempre.
Il pop italiano, in questo momento, sta agonizzando e così è nata la necessità di fondersi con generi musicali che, con più facilità parlano alle nuove generazioni. L’esplosione del rap è dovuta al vuoto lasciato dai padri cantautori, in un momento storico in cui l’unica alternativa era rappresentata dagli interpreti e dai soliti quattro giganti della musica, che continuano a fare le loro cose incredibili, quindi nulla da eccepire a riguardo. Personalmente, la contaminazione la sento molto, credo che il rap abbia contaminato sia il pop che l’indie, sia a livello di scrittura che di suoni».
Ci siamo incontrati e visti a Sanremo nel 2017, il giorno seguente l’eliminazione dalla gara di “Togliamoci la voglia”, brano proposto in coppia con Giulia Luzi. A parte il rammarico di non aver potuto assistere alla vostra performance con la cover di “C’era un ragazzo”, che personalmente considero strepitosa, qual è ad oggi il tuo pensiero sul Festival? Ci torneresti?
«Per me il Festival è stato, al netto di tutti i problemi che ci sono stati, una bellissima esperienza. Innanzitutto mi ha insegnato a non avere mai più paura di nessun palco nella vita, questa credo sia una cosa fondamentale. Come te penso sia stato un peccato non aver potuto esibirci sulla cover, perché era il punto di forza del nostro Sanremo, personalmente parlando e senza nulla togliere agli autori, secondo me il pezzo non era forte ed è stato un po’ quello il problema, non solo per me ma anche per Giulia, una bravissima ragazza che saluto e ringrazio. Venivo da un anno parecchio fortunato, se fossi andato in gara a cantare una storia mia, probabilmente, sarebbe andata in maniera diversa. Certo, la certezza non posso averla, ma il mio unico rammarico è quello di aver perso l’occasione di raccontare qualcosa che mi rappresentasse al 100%. Ho bisogno di poter tracciare io la mia strada, di decidere io le cose in maniera autonoma, con quali brani uscire, quando e come».
A tal proposito, mi ha molto colpito la tua frase: “Scrivo e canto canzoni, tendenzialmente in quest’ordine”, qual è l’aspetto che più ti affascina della fase creativa?
«Avere la possibilità di tirare fuori il mio mostro, perché credo che dalla felicità non nasca l’arte, almeno questo è il mio pensiero. Tendenzialmente più sto bene e più scrivo canzoni di merda, il dolore è uno spunto per creare qualcosa di bello, un concetto che reputo estremamente affascinante».
Per concludere, qual è l’insegnamento più importante che senti di aver appreso da tutti questi anni di musica?
«Che la vita ti fa scoprire sempre chi sei veramente, trova sempre il modo».
Nico Donvito
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