Analisi sull’attuale situazione del nostro mercato, incentrato sulla svendita del gusto e il trionfo della quantità a discapito di un’oggettiva qualità
Da quando il concetto di buffet si è insidiato prepotentemente tra le abitudini dell’uomo, ogni cosa ha perso il suo valore. Ad aprirmi a questa riflessione é stata Monica Landro (direttore di M Social Magazine), con la quale scambiamo sempre piacevoli chiacchierate musicali e non. Pensateci bene, il paragone tra discografia e ristorazione non è poi così azzardato: chiudete gli occhi e immaginate una tavola imbandita per un rinfresco, cosa succede appena arrivano le prime portate? Il finimondo, esodi di persone affamate alla ricerca di qualsiasi cosa che possa riempire in modo piramidale il proprio piatto, incuranti di calorie o di qualsivoglia tipo di intolleranza alimentare, gli ingredienti possono pure essere scaduti, tanto è gratis! Invece, quando andiamo al ristorante (e paghiamo alla carta) mastichiamo molto più lentamente, tartassiamo il cameriere di domande sulla provenienza biologica degli alimenti e ci facciamo pure cambiare il bicchiere se notiamo un piccolo alone. Ovvio, come diceva Totò: “e io pago!”.
Ecco, prendete questo esempio e spostatelo direttamente dalla cartella “trattoria” a quella “discografia”, il concetto è pressoché identico. Da qualche anno a questa parte, soprattutto dopo l’avvento del digitale, abbiamo assistito allo stesso tipo di svalutazione, per cui non si perde più tempo ad ascoltare le canzoni, capirne il contenuto, focalizzarsi sulle parole, ci limitiamo a riempire il nostro carrello di Amazon o iTunes come se stessimo al supermarket, rimpinzando la nostra spesa con prodotti commerciali in bella vista, senza nemmeno degnare di uno sguardo la merce posta sugli scaffali più angusti. Attenzione, questo solo nel caso in cui prendiamo in considerazione la musica scaricata legalmente. Un brano può costare da 0,69 a 1 euro e 29 centesimi, a seconda della piattaforma, ma il grosso risparmio lo ottieni se acquisti il cosiddetto “formato famiglia”, ossia il 3×2 o il classico “prendi due e paghi uno” dei fustini di detersivo, in ambito musicale rappresentato da compilations, playlist o album dei singoli artisti, rigorosamente ad un prezzo stracciato tipico delle svendite dei grandi magazzini, il tutto spesso accompagnato da un gadget brandizzato, l’autografo del cantante di turno, una trapunta in lana merino, una batteria di pentole in acciaio inox e una bicicletta con cambio shimano. Un modello simile a quello dei firmacopie (che in questo articolo avevamo definito come una specie di ricatto dell’attuale discografia), strategie di marketing prese in prestito dalle televendite presenti da oltre trent’anni sulle emittenti televisive generaliste, che hanno stravolto il mercato a suon di slogan: “alle prime cento telefonate” o “solo per oggi”.
Pur di vendere si è disposti ad accettare un concreto decadimento qualitativo, che si ripercuote nella nostra società sotto forma di impoverimento culturale, un discorso che ben si adatta a qualsiasi altra forma d’arte, dalla letteratura al cinema. Oggi come oggi, andare a comprare un album fisico significa: vestirsi – uscire di casa – cercare uno dei pochi negozi nei paraggi che vendono ancora dischi – spendere dei soldi – (fin qui tutto noioso, ma ora arriva il bello) – gustare il momento dell’apertura – annusare il libretto che odora di nuovo – infilare il cd in uno dei pochi supporti rimasti per leggerlo – ascoltarlo più volte per poi conservarlo nella nostra collezione insieme agli altri. Quante volte lo avete fatto? Io mille, ma non riesco a stancarmi di questa antica usanza, anzi non riesco proprio ad immaginare il giorno in cui dovrò necessariamente farne a meno.
Tutto ciò nel caso in cui acquistiamo musica sia in fisico che in digitale, mentre il discorso è ben diverso per chi scarica illegalmente, il fenomeno della pirateria è ancora più preoccupante, perchè ha completamente azzerato il valore commerciale della musica, rendendolo al minimo storico, trasformando le grandi etichette in piccole onlus. Tutto torna, anche il discorso del ristorante, perché pagando quello che consumiamo ci prendiamo il tempo per assaporare un determinato piatto, non mandiamo giù in un sol boccone, mastichiamo con calma e ci preoccupiamo per la nostra digestione. In un buffet, invece, diventa una gara a chi ingurgita più cibo, infatti, l’abbonamento mensile di Spotify Premium ha lo stesso costo di un menù “all you can eat”. Sarà un caso? Io non credo.
In conclusione, commercialmente può pure sembrare una strategia vincente quella di abbuffare l’ascoltatore di canzoni-tramezzino, aggiungendoci pure qualche patatina e due olivette, ma quanto potrà durare questa formula? Quanto ancora il nostro stomaco sarà disposto ad accettare e assimilare voracemente tutto ciò che gli viene proposto? Arriveremo allo sfinimento e al collasso dell’intero sistema, almeno se non cominciamo ad utilizzare due semplici paroline: «no grazie», fatelo… sono gratis anche loro! La musica a basso costo è un’illusione fallimentare, una sorta di mercatino delle pulci digitale dove, a differenza della roba usata, rischi di non trovare nulla di particolare rilievo. E’ la nostra mentalità che è sbagliata, pretendiamo sconti da qualsiasi gestore, cambiamo compagnia telefonica perché tanto sappiamo che l’operatore ci richiamerà per proporci l’offerta su misura per noi, non compriamo più i dischi perché siamo certi di trovarli online a prezzi nettamente inferiori o, nella migliore delle ipotesi, gratuitamente in versione pirata. E’ l’alternativa che ci frega perché, diciamocelo chiaro, grazie agli algoritmi dello streaming possono manovrarci come vogliono, attraverso l’uso di playlist virali o misteriose rotazioni non del tutto casuali. La massima rappresentazione del nostro reale potere decisionale può essere espressa solo mediante l’acquisto del fisico, lì nessuno può condizionarci… se non un sacrosanto e soggettivo gusto personale.
Nico Donvito
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