venerdì 22 Novembre 2024

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Silvia Mezzanotte, contare fino a dieci e cantare fino a mille – INTERVISTA

A tu per tu con l’interprete bolognese, disponibile negli store con il suo nuovo album “Aspetta un attimo”

Ci sono artisti con cui puoi aprirti a confidenze, lasciarti andare a livello personale ed incentrare un’interessante chiacchierata telefonica di carattere musicale, ma non solo. Silvia Mezzanotte appartiene a quella categoria di persone dotate di estrema sensibilità, oltre che di un pluririconosciuto e universale talento vocale. Aspetta un attimo è il titolo del suo terzo album da solista, composto da undici brani inediti scritti per lei da autori del calibro di Pino Marcucci, Giuseppe Fulcheri e Roberta Faccani. All’interno di questo progetto ci sono cinquant’anni di vita, dall’esordio sanremese datato 1990 alla lunga militanza come vocalist dei Matia Bazar, con i quali ha vinto un Festival della canzone italiana nel 2002, fino alle recenti esperienze televisive di Tale e quale show e All together now. Prendetevi il tempo necessario per questa lunga e amichevole intervista, volta a scoprire in profondità l’indole di una grande professionista e l’animo di una grande donna, che ha imparato sulla propria pelle a contare fino dieci e a cantare fino a mille, senza più risparmiarsi.

Ciao Silvia, bentrovata. Partiamo dal tuo nuovo album “Aspetta un attimo”, com’è nato e cosa rappresenta per te?

«È nato dopo un lungo periodo di gestazione, a fine 2017 ho fatto un cambio repentino del mio team di produzione, le persone nuove di cui ho deciso di circondarmi mi hanno fatto vedere le cose con altri occhi, compresi alcuni errori che stavo commettendo, riportandomi sulla strada maestra dell’arte, concentrandomi esclusivamente su ciò che volevo dire e non più su quello che gli altri si aspettavano che io facessi. Da quel momento in poi tutto quanto è avvenuto in maniera naturale, comprese le canzoni che sono arrivate, ho scelto quelle che più mi piacevano, collaborando alla stesura dei testi con gli stessi autori, tutti quanti di straordinario spessore. Certo, magari non così blasonati come hitmaker più richiesti del momento, ma dotati di una sensibilità e di un talento assolutamente fuori dall’ordinario».

Ascoltando il disco si evince che le canzoni siano state cucite su misura per te, proprio come si faceva una volta. Oggi, sempre più spesso, coloro i quali hai appena definito hitmaker confezionano canzoni proprio come la marmotta fa con la cioccolata nella famosa pubblicità, per poi farle girare fino a che qualcuno non le prende. Secondo te, viviamo in un’epoca di spersonalizzato interpretariato?

«Mi trovo d’accordossimo con te, le canzoni ormai si somigliano l’una con l’altra, i cantanti tendono ad omologarsi, mentre nel caso del mio disco è difficile immaginare queste canzoni cantate da altre vocalità. Certo, anche io ho ricevuto canzoni di questo genere, ma non le ho scelte proprio perché non le sentivo adatte a me. Dico sempre di sentirmi orgogliosamente un’interprete, spesso si sottovaluta questa figura, mentre esempi come Mina ci fanno capire quanto sia importante la personalità e il fatto che le canzoni venissero cucite su misura per lei, in modo da risultare coerenti tra loro, delle vere e proprie canzoni d’autore che richiamano lo stesso spessore del cantautorato. Proprio per questo motivo preferisco avvalermi dell’eccellenza di autori di straordinaria autorevolezza.

Grazie a loro ho iniziato a non preoccuparmi delle logiche commerciali, il mio obiettivo non era quello di creare qualcosa che seguisse i canoni standard. Non ho mai pensato che si potesse lavorare da soli, il team è sempre fondamentale, Per cui ringrazio la mia nuova formazione, ad iniziare dal produttore Pino Marcucci, al mio agente Stefano Baldrini, fino a tutte le altre figure professionali che hanno cominciato a ruotare attorno a me. Con loro sono tornata a lavorare con grande tranquillità e a sentirmi veramente me stessa, una donna che orgogliosamente ha superato i suoi cinquant’anni, che desidera comunicare con un linguaggio consono e vicino alle proprie corde. In “Aspetta un attimo” ci sono undici brani per me molto importanti, anche nei pezzi apparentemente leggeri c’è sempre un senso più profondo a livello testuale».

In una società frenetica come quella attuale, quanto è importante riscoprire il valore di un sano “contare fino a dieci”?

«Per me è fondamentale, credo che sia una cosa che manca in assoluto al giorno d’oggi, a tutti, in qualsiasi situazione o condizione. Una sorta di superficialità che riscontro purtroppo soprattutto nelle nuove generazioni, buttare fuori i propri pensieri senza filtrarli genera ignoranza e volgarità, manca l’elemento fondamentale alla base di una società civile, e ossia accertarsi della veridicità di ciò che si sta sostenendo e pensare alle conseguenze di determinate azioni. Questo genera comportamenti come quelli degli haters, fortunatamente non ne ho molti, ho un tipo di carattere che tende a non assecondarli, a schivarli. Non accettando le provocazioni, di conseguenza, non dò loro corda, Per cui mi capita di rispondere in maniera pacata e a volte anche ironica, “disarma il tuo nemico con un sorriso” mi ripete da sempre la mia mamma».

“Due volte grazie” è il brano che hai voluto dedicare a tuo papà, scomparso lo scorso anno. Più che del vostro rapporto nel corso del tempo, vorrei chiederti come vivi oggi la sua mancanza, se i ricordi e le cose belle che avete vissuto insieme riescono in qualche modo ad alimentare un nuovo tipo di presenza e, in tal caso, come sei arrivata a questa consapevolezza?

«Ho fede Nico e mi reputo davvero fortunata per questo. Provenendo da una famiglia laica, nessuno mi ha mai inculcato niente, tutto è arrivato in maniera assolutamente naturale. Nell’ultimo periodo di vita con il mio papà, avevo la percezione precisa che avesse terminato il suo percorso terreno e che fosse già pronto a passare dall’altra parte. Da diverso tempo era stato colpito dall’alzheimer, una malattia devastante che abbiamo cercato di contrastare giocando e scherzando con lui, sia io che mia sorella Cristina siamo state fino all’ultimo la sua luce, se n’è andato accompagnato dall’amore totale delle persone che gli volevano bene».

Che ruolo gioca la musica nel tuo quotidiano?

«E’ una compagna non costante, nel senso che non passo tutto il tempo immersa nella dimensione musicale, per chi fà questo genere di lavoro credo sia altrettanto importante il silenzio, serve a rigenerarsi e in qualche modo a purificarsi. La musica è parte integrante del mio quotidiano, in questo periodo studio diverse ore al giorno i brani di Astor Piazzolla, perché a breve avrò uno spettacolo che si chiamerà “Duettango”, in cui mi cimenterò con un repertorio di brani abbastanza difficoltosi che richiedono tanto impegno. La musica è una costante, sia per me che per la mia big family composta da tre gatti, due cani e il mio compagno Massimiliano, ma sono io che decido quando e quanto ascoltarla, perché ogni tanto ho bisogno di ripulirmi e di staccare la spina».

Quali sono gli aspetti che più ti affascinano del tuo mestiere?

«Per un certo periodo della mia vita c’era chi mi diceva di metterci troppo tecnica e poco cuore, con il tempo sono riuscita a fare tesoro di questo giudizio, a lavorarci su. Adesso, alla fine dei miei concerti, noto le emozioni tramite le espressioni facciali del pubblico e mi rendo conto di essere riuscita a trasmettere loro qualcosa. Ecco, questo è il senso preciso del mio cantare».

Senti di esserti sciolta con il tempo e di essere riuscita a lavorare, in tal senso, su te stessa?

«Certo che sì, da bambina ero molto insicura, sono nata con una sorta di senso di inadeguatezza patologico. Ho avuto un’infanzia serena, non ho mai subito traumi, ma sono stata dotata di una sensibilità così accentuata che bastava un niente per farmi crollare. E’ una condizione con cui ho sempre combattuto, parzialmente anche oggi, ma l’essere riuscita ad abbattere qualsiasi tipo di distanza con il pubblico è stato terapeutico. Ho sempre pensato che il canto mi abbia salvato la vita, sarei potuta essere una persona disadattata rispetto alle altre, lo dico con tutta serenità, perché ero davvero di una timidezza sconvolgente. Il tempo nel mio caso è stato galantuomo, mi ha aiutato a liberarmi delle mie paure, pur sapendo di aver scelto uno dei mestieri più difficili perché soggetto costantemente al giudizio degli altri. L’insicurezza ha fatto sì che all’inizio puntassi tutto sullo studio e sulla tecnica, successivamente hanno lasciato il passo all’istinto e alle emozioni, infatti oggi mi diverto come una matta».

Alla domanda “Chi pulisce più di Chanteclair”, mi sono sempre autorisposto “Silvia Mezzanotte”, nel senso che sono a conoscenza della tua mania per il pulito. Come prosegue la tua relazione con l’aspirapolvere?

«Guarda, vorrei che tu vedessi in questo momento cosa sta succedendo a casa mia (ride, ndr). Sono comodamente adagiata sul divano, mentre stiamo parlando ben due robottini stanno gironzolando sotto i miei piedi per pulire la sala da pranzo. Ok, io sono un po’ maniaca del pulito, ma è anche vero che ho cinque animali in casa, per cui la mia relazione con l’aspirapolvere prosegue benissimo, tant’è che ieri l’altro ne ho appena comprato uno nuovo! Però ti prego non intitolare l’intervista “Silvia Mezzanotte, la regina degli aspirapolveri” (sorride, ndr)».

Prometto che non lo farò! Si è appena conclusa l’esperienza di “All together now”, qual è il tuo personale bilancio di questa avventura?

«Inizialmente sono partita con qualche riserva, semplicemente perché nel nostro Paese è stata una trasmissione pilota, terminato il primo giorno di prove ho capito subito che mi sarei divertita un mondo. Ciascuno dei cento componenti del muro si è innamorato della trasmissione e dei novantanove colleghi, anche se nessuno di noi sapeva bene cosa sarebbe successo. Non hai idea di come mi sono divertita, quando mi hanno fatto cantare “Pedro” della Carrà ero al settimo cielo, diciamo ogni settimana sono ringiovanita di cinque anni. C’è un’altra cosa importante che mi ha lasciato questa esperienza, il rapporto di stima e di rispetto reciproco che si è instaurato con i tanti giovani artisti presenti nel muro, che probabilmente non conoscevano bene né me, né Simona Bencini, né Mietta. Tuttora tra di noi abbiamo una chat su WhatsApp, continuiamo a sentirci quotidianamente, ogni mattina mi alzo con un centinaio di messaggi da leggere. Per me “All together now” ha rappresentato un’ulteriore crescita personale, un tassello in più per la mia autostima».

Ti senti rappresentata dall’attuale settore discografico?

«Porto con me un background che, ahimè, in Italia ultimamente è poco valorizzato, ossia quello strettamente legato alla melodia e alla tradizione, possibilmente con testi mai banali e di una certa eleganza, tutti requisiti nei quali difficilmente ci si può identificare nella stragrande maggioranza delle proposte di oggi. Detto questo, naturalmente, ci sono diverse piacevoli eccezioni, come Ultimo, Ermal Meta, Calcutta, i Thegiornalisti, tutti artisti che vanno fortissimo discograficamente ma che riescono a preservare un certo tipo di valori, perché attingono molto dal passato, lo conoscono e quantomeno lo rispettano.

Personalmente non sono contenta che Sfera Ebbasta sia uno dei giudici della nuova edizione di X Factor, se mi ero mediamente scandalizzata per la presenza della Lamborghini a The Voice, non riesco ad accettare questa nuova “nomina”. In qualità di educatrice musicale, rapportandomi spesso con i ragazzi nelle varie masterclass, mi sento responsabile dei consigli che rivolgo loro e, di conseguenza, mi domando: quali valori artistici e umani può trasmettere ai giovani che partecipano al talent? Si ripulisce lui o si sporcheranno i ragazzi? Non è solo una questione di inesperienza, lo dico con preoccupazione e non con pregiudizio».

Mettiamo alla prova le tue doti da veggente: in che direzione si evolverà l’industria discografica? Come e cosa ascolteremo tra dieci anni?

«Al momento vanno per la maggiore due filoni: il primo è rappresentato dalla trap music che personalmente reputo scadente e di bassa qualità, colpa dell’involuzione culturale che stiamo vivendo su vari fronti, lo dico senza peli sulla lingua, non mi importa niente se ha tanto successo; il secondo è quel nuovo tipo di cantautorato che in molti definiscono indie e che non mi dispiace assolutamente. Comunque sia, credo che le mode abbiano sempre vita breve e che si tornerà a rivalutare presto la melodia. Per poter risalire bisogna prima toccare il fondo, siamo ancora nella fase discendente. Dal punto di vista della fruizione, penso che andremo sempre di più in una direzione liquida, di scarsa qualità dal punto di vista dell’ascolto, oggi parliamo di un file mp3 ascoltato sul telefonino, domani andrà di pari passo con le nuove scoperte tecnologiche, difficilmente riusciremo ad invertire questa tendenza. Al contrario, nutro molta speranza nei confronti del talento e della voglia di tornare a scrivere belle canzoni».

Secondo te, la vittoria ad “Amici” di Alberto Urso, tenore che incarna il concetto di melodia per eccellenza, possiamo intenderla come l’inizio di questa auspicata controtendenza?

«Potrebbe essere, d’altronde Maria De Filippi è un’anticipatrice, sono rimasta molto sorpresa quando ha scelto Vittorio Grigolo come direttore artistico, non me l’aspettavo. Alberto ha un grande talento, c’è poco da dire, per arrivare a cantare in quel modo bisogna avere talento e studiare, basta, non serve nient’altro. Un bel messaggio anche per i ragazzi che da casa guardano questo genere di trasmissioni, è fondamentale trasmettere loro questo genere di valori, non basta un briciolo di bravura per andare avanti».

Il prossimo anno festeggerai trent’anni dal tuo esordio sul palco dell’Ariston, Sanremo è un obiettivo?

«Potrebbe essere una candidatura, ma non può essere un obiettivo, nel senso che non siamo noi artisti a decidere, a meno che tu non sia Mina (sorride, ndr). Penso di avere un brano da proporre, ci stiamo lavorando sopra, ma l’obiettivo sarà quello di festeggiare i miei trent’anni di carriera nel mondo più bello possibile, con o senza Sanremo. Sia chiaro, il Festival è certamente nei miei pensieri, sul palco dell’Ariston ho vissuto delle emozioni incredibili».

Ci sono stati dei momenti nella tua carriera in cui hai ripensato, col senno di poi, a determinate azioni e tornando indietro agiresti diversamente?

«Lo dico con grande incoscienza: non sono abituata a rimuginare su ciò che è stato, per natura sono orientata verso il futuro, se cado mi rialzo e vado avanti. Tutte le decisioni più importanti della mia vita non le ho mai prese da sola, nel senso che tendo a riflettere molto e prima di fare un cambiamento lo devo sentire dentro di me. Quando ho lasciato la prima volta i Matia Bazar c’erano delle motivazioni, pur sapendo perfettamente che sarei andata incontro a tante difficoltà, la consapevolezza ti porta a non avere ripensamenti. Se prendi decisioni quando non ne sei davvero cosciente, allora sì che potrebbe essere pericoloso e potresti un giorno pentirtene, questo vale sia per la sfera artistica che per quella personale».

Chi è oggi Silvia Mezzanotte? Se ti guardi allo specchio quale immagine vedi?

«Vedo una persona molto più serena che in passato, con meno paura e un’attitudine al vedere il bicchiere mezzo pieno, rinforzata con gli anni. Ho la consapevolezza di aver fatto un bel percorso artistico e di avere alle mie spalle una carriera importante, ma ancora molti sogni e tanta voglia di realizzarli, nonostante le grandi difficoltà. Non ti nascondo che quella che sono oggi dipende anche dalla mia vita affettiva, da dieci anni affronto stabilmente la relazione con il mio meraviglioso compagno, che considero il mio angelo custode, che mi aiuta a vedere le cose in maniera laterale. Massimiliano mi dà grande forza, oltre che una grande serenità».

Senti di aver raggiunto il giusto equilibrio tra chi sei e chi vorresti essere?

«No, non ancora, perché sono una persona di grande ambizione, che vorrebbe ancora fare tanto e che sta lavorando per i suoi obiettivi. Mi sento all’inizio di un nuovo percorso, cominciato due anni fa con la lavorazione di questo disco, che mi ha regalato una nuova serenità. Essendo un’anima in continua evoluzione, probabilmente, non raggiungerò mai questo tipo di equilibrio, il mio è un viaggio inquieto, sono stata dotata di una grande emotività che mi porta a vivere situazioni contrastanti, l’essere sensibili ha sia pregi che difetti».

Per concludere, cosa ti ha insegnato la musica in tutti questi anni di attività?

«Il canto, prima ancora che la musica, mi ha insegnato uno stile di vita preciso, un certo rigore sul palco e una grande umanità giù dal palco, mi ha aiutata a riuscire ad esorcizzare i miei demoni. E’ un dono che mi fa sentire un pezzo di Dio perché, come diceva Sant’Agostino, chi canta prega due volte»

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.