A tu per tu con la raffinata e poliedrica artista, disponibile dal 22 novembre con il nuovo disco “Beige“
Gradito e piacevole ritorno quello di Amalia Grezio, meglio nota con lo pseudonimo di Amalia Grè, artista a tutto tondo, in uscita nei negozi tradizionali e negli store digitali con “Beige”, disco che rende omaggio agli standard jazz che l’hanno formata e ispirata dai primi anni della sua carriera sino ad oggi. Tra i brani che impreziosiscono il suo repertorio, ricordiamo “Io cammino sola di notte” del 2001 e “Amami per sempre” presentata a Sanremo 2007. Oltre che attraverso la musica, l’arte fa parte della sua vita a 360 gradi, essendo anche una designer, una pittrice e una scultrice. Classe e istinto, questi due degli elementi che la caratterizzano e la rendono unica nel vasto panorama della musica internazionale.
Ciao Amalia, partiamo da “Beige”, il tuo nuovo album in uscita il 22 novembre, che raccoglie un po’ quelli che sono i classici che più ti hanno ispirato e influenzato. Come hai selezionato le undici tracce in scaletta?
«Avendo studiato jazz da giovane, ho imparato tantissime canzoni che negli anni hanno arricchito il mio bagaglio, per poi arrivare a selezionare quelle che mi piacciono di più e che ho sentito più vicine a me. Ad esempio, il singolo apripista “Goodbye Pork Pie Hat” è stato il brano che mi ha fatto decidere di intraprendere questo tipo di percorso, la prima volta che l’ho sentito suonare da un’orchestra, ho capito che la mia anima si allineava in quella precisa direzione».
Hai un timbro vocale molto personale, direi unico, c’è stato un pezzo particolarmente difficile da riadattare e da portare nel tuo mondo?
«Quelli difficili li abbiamo scartati (sorride, ndr), a parte gli scherzi… no, bene o male siamo riusciti a trovare una giusta connotazione per tutti. E’ stato un processo di ricerca molto fluido, non abbiamo trovato questi grossi intoppi».
Naturalmente, per il tipo di genere non stupisce trovare in scaletta brani unicamente in inglese, ma in futuro ti piacerebbe realizzare anche un disco di cover in italiano? Magari di pezzi riletti in chiave jazzistica, riadattati al tuo stile, come hai avuto modo di fare in passato con “Quanto t’ho amato”
«Mi piacerebbe molto, anzi non ti nascondo che ci stiamo già pensando, mi hai proprio scoperta, stiamo facendo una selezione di brani in italiano che vorrei cantare. Chissà, magari potrebbe essere uno dei prossimi progetti, ho già una lista di canzoni che adoro e, quindi, stesso concetto potrei seguire il filone intrapreso con “Beige”. Quello che è certo è che sarò sempre me stessa, gli arrangiamenti seguiranno la mia natura».
Quando e come hai capito che, oltre ad una grande passione, la musica era diventato per te un vero e proprio mestiere?
«Ho capito che sarei diventata cantante alla fine del percorso universitario, perché io ho fatto scenografia teatrale che non c’entra nulla con la musica. Il giorno della discussione della tesi, alla domanda “cosa farà da grande?” ho risposto: la cantante. Diciamo che ero piò o meno orientata verso questa scelta, non ti nascondo che il mio indirizzo di studi mi ha comunque agevolato, perché la scenografia, il senso estetico e il senso dell’arte sono un tutt’uno con la musica. Ho costantemente bisogno di avere a che fare con la bellezza, di creare il set scenografico della vita, così come il design e la moda, mi interessano tutte queste discipline perché rappresentano una sorta di percorso unitario».
In un’epoca in cui c’è molta più improvvisazione rispetto al passato, che messaggio ti senti di rivolgere ai ragazzi che oggi vogliono intraprendere un percorso similare al tuo?
«Se intendono avvicinarsi al jazz devono sapere che è necessario studiare, perché io stessa ho dovuto fare diversi sacrifici, dedicare parecchio tempo, infatti ho perso tutti i miei amici, forse è stata una cosa un po’ eccessiva, però si tratta di una musica difficile, per cui è necessario molto impegno, anche perché ti dà quel cuscino di appoggio e un’enorme sicurezza. E’ un po’ come quando scegli di fare il classico, se non hai voglia di studiare lascia perdere».
Oltre che di studio e di disciplina, pensi che possa essere anche un discorso legato alla curiosità, perché oggi ci sono molti più strumenti di ricerca, anche in piena autonomia con un motore di ricerca possiamo venire a conoscenza di qualsiasi tipo di informazioni. Per te la tecnologia ha portato più vantaggi o svantaggi?
«Non saprei, penso che sia semplicemente una questione di diversità, i tempi sono cambiati, apprezzo molte delle cose che vengono proposte oggi: E’ completamente un’altra situazione, però il jazz è “beige”, quindi è classico e rimane, chi si vuole avvicinare a questo modo di esprimersi è perché ha voglia di libertà, è un genere che affonda le proprie radici sull’improvvisazione, non si basa sulla ripetizione della stessa singola nota, bensì ti dà la possibilità di spaziare e di creare sul momento, questa è la formula di questo genere musicale, un’attitudine che va al di là delle mode».
Nel 2007 hai partecipato al Festival di Sanremo, tra i big con “Amami per sempre”, cosa ti ricordi di quell’esperieza? E’ un habitat che hai sentito in qualche modo “ostile” oppure eri a tuo agio?
«Non ero molto a mio agio, però Pippo Baudo mi aveva preso sotto la sua ala, Fiorello mi aveva molto incoraggiata, ma non è affatto un palcoscenico facile. Ho portato un brano di élite, nella serata dei duetti ho ospitato Mario Biondi, un altro artista d’élite, abbiamo fatto il nostro lavoro… insomma, facciamo quello che siamo».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica in questi anni di carriera?
«La musica è una cura, un antidoto, qualcosa che và al di là di te. Il concetto che ho imparato adesso è che devo donarla agli altri, più che per una questione mia estetica e personale di passare in primo piano io come personaggio. Mi sento un veicolo, vado oltre questi concetti, devo dare il mio talento agli altri perché è un dono che ho e lo devo regalare, questo è il punto focale della mia vita oggi».
Nico Donvito
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