sabato 23 Novembre 2024

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Matteo Becucci: “C’è sempre bisogno di belle canzoni” – INTERVISTA

A tu per tu con il noto cantautore toscano, vincitore della seconda edizione italiana di X Factor

Gradito ritorno per Matteo Becucci, artista che ricordiamo per il trionfo nel 2009 di X Factor e per la sua partecipazione a “Tale e quale show”, prima in veste di concorrente e poi di coach. Quattro album all’attivo: “Liberi di mente” del 2003, “Cioccolato amaro e caffè” del 2009, “Matteo Becucci” del 2011 e “Tutti quanti Mary” del 2014, più tante belle canzoni come “Impossibile”, “Lo avrei dovuto sapere”, “Ti troverò”, “Sei unica”, “Fare a meno di te”, “La cucina giapponese”, “Era di maggio”, “Fammi dormire” e “L’elefante”. Si intitola “Lontano dagli alberi” il singolo che rompe il suo silenzio discografico, restituendoci una tra le migliori voci in circolazione.

Ciao Matteo, benvenuto. Partiamo da “Lontano dagli alberi”, che sapore ha per te questo nuovo singolo?

«Ha un buon sapore, un sapore d’autunno, perché ritorno a farmi sentire con qualcosa scritto da me. Devo dire la verità, dopo il mio precedente disco “Tutti quanti Mary” ho avuto un po’ di amaro in bocca, perché è un album che non ha avuto abbastanza luce, non c’è stata troppa attenzione nonostante fosse un progetto in cui ho creduto molto. Di conseguenza mi era un po’ passata la voglia di tirare fuori nuove canzoni, voglia che mi è ritornata anche grazie ad una frase di Daniela Turchetti, che si occupa del mio ufficio stampa, e che mi ha detto: “c’è sempre bisogno di belle canzoni, al di là di tutto vanno sempre fatte uscire”. Onestamente, considero “Lontano dagli alberi” una bella canzone, con un arrangiamento fatto bene, così mi si è riaccesa la voglia di rimettermi in gioco con serenità, per vedere cosa succede».

Un brano che mette in risalto la tua voce, devo dire sempre precisa ed impeccabile. Musicalmente parlando, pensi di aver trovato la giusta quadra sonora?

«Sì, penso di sì, anche se in campo artistico si è sempre in continua evoluzione, prendi ad esempio i pittori, nel corso della loro vita attraversano varie fasi e vari periodi, la stessa cosa succede in qualsiasi altro lavoro creativo. Per quanto mi riguarda, le sonorità di questo pezzo sono figlie di tutti i mie ascolti, in particolare Paolo Nutini,, ma anche un disco che mi capita di ascoltare spesso, vale a dire “Mission Bell” di Amos Lee, un artista statunitense poco famoso in Italia che mi piace parecchio, il suo disco mi ha convinto a cercare nuove strade sonore, più semplici, percorribili, acustiche e con meno elettronica, ossia con strumenti suonati».

Dal punto di vista testuale, invece, la canzone racconta la fase del distacco, quel momento in cui si decide di tagliare un po’ col passato, di cominciare a camminare con le proprie gambe. Cosa ti ha ispirato questa storia?

«Ho ricevuto vari input, nella scrittura di un testo c’è sempre una scintilla iniziale ma poi ti lasci influenzare da tanti altri fattori. Nel caso di questa canzone la scintilla iniziale è stata il racconto di una mia allieva che mi ha parlato del suo rapporto difficile con il padre, a questo si è aggiunto anche un momento particolarmente difficile della mia vita, quando nel 2015 mi sono separato dalla mia ex moglie, una decisione che ha richiesto del tempo come è giusto che sia quando hai delle figlie piccole, una situazione dalla quale ne sono uscito con non poca sofferenza. Mi sono sentito lontano da quegli alberi che rappresentano in qualche modo il luogo familiare, smarrito come in una palude, ma sono riuscito a guardare in avanti, a tenere la testa alta».

Quando e come hai capito che la musica avrebbe ricoperto un ruolo così centrale nella tua vita?

«Diciamo che c’è un momento in cui ho capito che avrebbe fatto parte della mia vita per sempre, ovvero quando a circa tre anni ho scoperto il pianoforte. Indipendentemente dal fatto che fosse o meno il mio mestiere principale, ho cominciato ad amare la musica sin da bambino, sono sempre stato un ripetitore seriale di tutto ciò che ho ascoltato. Superata la maggiore età ho cominciato a lavorare come turnista professionista. Ho cantato e suonato non so in quante formazioni, negli anni ’90 ho avuto anche un contratto discografico. Quando ho capito che volevo mettere sù famiglia, c’è stato un periodo in cui ho svolto anche altri mestieri, ma non ho mai smesso di fare musica, è la mia vita».

A dieci anni di distanza dalla tua vittoria di X Factor, come valuti l’evoluzione del talent show? 

«Quando ho partecipato io era l’inizio di X Factor, la prima stagione era andata bene ma era stata una specie di esperimento, hanno vinto gli Aram Quartet ed è esplosa Giusy Ferreri, mentre la mia stagione ha confermato il successo, tant’è che ad oggi è rimasta la più vista di sempre. Il cast dei concorrenti era pazzesco, calcola che mi hanno preso ai casting nonostante avessi 38 anni, non è una cosa da poco, ero in squadra con Morgan, sono arrivato in fondo ed ho vinto. Quell’anno lì c’è stata un’esplosione delle vendite dei ragazzi dei talent in generale, perché fino a quel momento non avevano riscosso un particolare riscontro discografico, infatti tanti signori e signorotti della musica che oggi “mangiano” con i talent show, all’epoca li criticavano, senza fare nomi (sorride, ndr), io me ne ricordo tanti tanti tanti.

Come ti dicevo, nel mio anno il livello dei concorrenti era molto alto, mentre in quello seguente Marco Mengoni non ha avuto molta concorrenza, non solo perché è molto bravo. L’idea che mi sono fatto io è che all’epoca X Factor era meno “gestito”, in questo momento ho l’impressione che decidano tutto prima,  sin dalle audizioni mi sembra tutto un pochino più guidato. Un tempo era tutto più sperimentale mentre adesso sanno benissimo chi vogliono portare fino in fondo, prima stavano a guardare il percorso e il gradimento del pubblico, in un certo senso oggi prendono prima in mano la situazione, c’è un altro tipo di gestione».

A conferma di quanto mi stai raccontando, c’è il fatto che dalla terza edizione in poi chi vinceva partecipava di diritto a Sanremo…

«Esatto. La mia edizione è durata dal 12 gennaio al 19 aprile del 2009, mentre la terza è andata in onda da settembre fino a dicembre dello stesso anno, questa a conferma del grande successo che avevamo ottenuto con la seconda stagione, al punto che la finale era stata trasmessa su Rai Uno. Nonostante il grande riscontro, l’idea è stata quella di spostare il programma dal primo periodo dell’anno dove c’erano già Amici e il Grande Fratello. Per ammortizzare la difficoltà dello slittamento in autunno, hanno deciso di mettere in palio un posto per Sanremo. Pensa che quell’anno avevo provato anch’io a partecipare al Festival, ma c’era già di diritto un vincitore di X-Factor, il direttore artistico dell’epoca non poteva prendere due vincitori della stessa annata dello stesso programma. Lì per lì ci rimasi male, ma col senno di poi ho realizzato che forse non ero nemmeno pronto, nel senso che è il brano non mi convinceva del tutto, probabilmente mi rappresentava in quel momento ma non a lunga distanza».

Qual è il tuo personale bilancio di questi dieci anni di carriera? Di cosa vai più fiero e cosa invece vorresti ancora realizzare? 

«Sicuramente la cosa che ancora oggi è rimasta irrisolta è il Festival di Sanremo, tutte le volte che me lo chiedono penso a Roberto Murolo che c’è andato all’età di 81 anni. Insomma, è un’esperienza che per me è rimasta un po’ in sospeso, tra l’altro qualche anno fa ho sfiorato la partecipazione in coppia con Fausto Leali, con una canzone scritta da me, alla fine non siamo riusciti, conduceva Carlo Conti, nonostante questo è nata una bella amicizia con Fausto, successivamente abbiamo fatto altre cose insieme. Il non essere riuscito mai a partecipare al Festival un po’ brucia, più per un discorso emotivo che discografico, perché non è detto che la partecipazione a Sanremo cambi necessariamente la carriera di un artista. Credo che il segreto sia continuare a scrivere belle canzoni, indipendentemente da tutto il resto, bisogna credere nel proprio valore artistico e dare il massimo, poi gli spazi vengono da sé, penso che sia sempre l’artista a fare la differenza».

Nel 2014 partecipi con successo come concorrente a “Tale e quale show”, mentre dallo scorso anno ricopri anche il ruolo di coach. Cosa ti affascina esattamente di questa trasmissione?

«Quando Carlo mi ha chiamato la prima volta per propormi di partecipare, non ero molto convinto, anche perché la televisione l’ho sempre vista poco. Poi, da cantautore orgoglioso della propria originalità,, non è facile pensare di poter fare delle imitazioni. Così ho cominciato a pensarci, ho riguardato le precedenti edizioni, ho valutato gli ascolti, ho pensato alla visibilità che mi avrebbe dato e ho riflettuto molto anche sull’aspetto recitativo dell’interpretare un altro personaggio, perché sono sempre stato attratto dal teatro, ho fatto diversi musical e sono state esperienze per me incredibili, in più il fatto che fosse trasmesso in prima serata su Rai Uno ha fatto decadere ogni iniziale titubanza. Partecipando ci ho preso gusto, ho vinto quattro puntate, alla fine sono arrivato terzo, mi sono davvero divertito. Parallelamente mi sono messo anche a studiare la didattica del canto, per questo motivo dallo scorso anno sono entrato a far parte del programma anche come coach, visto che da regolamento si può partecipare come concorrente soltanto due volte. Anche questo ruolo mi piace molto, ho la fortuna di avere tanti allievi, faccio stage in tutta Italia e questa attività mi regala non poche soddisfazioni».

Dato il tuo impegno come docente, come valuti il livello di talento dei ragazzi che si approcciano oggi al canto? 

«Rispetto a qualche anno fa, secondo me la media è superiore a livello tecnico, quello che molti però non considerano è l’identità artistica, che poi è il nome stesso del mio stage, perché è meglio cercare una strada personale piuttosto che optare per la perfezione del canto, questa è una cosa importante che molto spesso tante persone sottovalutano, oppure la prendono in considerazione troppo tardi».

Per concludere, a chi ti piacerebbe arrivare oggi attraverso la tua musica?

«Guarda, a parte le mie due figlie di sedici e tredici anni, ho parecchi allievi giovanissimi, ma anche gente più adulta, quindi mi approccio con persone di varie fasce d’età, per questo motivo penso che la musica possa essere davvero trasversale. A me piacerebbe che le persone tornassero ad ascoltare di tutto e che, di conseguenza, fruissero della musica secondo i propri gusti, questo oggi succede un po’ meno, ci sono così tante proposte, io stesso scopro ogni giorno qualcosa di nuovo. Secondo me “Lontano dagli alberi” è una canzone che può emozionare chiunque, non mi piace pensare ad un target di riferimento, non credo di fare un genere generazionale come può essere, ad esempio, la trap. Ho un ricordo che mi fa venire i brividi, gli occhi che brillavano pieni di emozione di mia figlia Caterina dopo aver visto un concerto di Jovanotti. Ecco, la musica deve lasciare questo, senza tanti discorsi».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.