A tu per tu con il rapper bresciano, fuori con il suo nuovo singolo intitolato “Isola“
Tempo di nuova musica per Merio, artista che ricordiamo per la sua longeva militanza nei Fratelli Quintale, e che ritroviamo con il singolo “Isola”, un brano sospeso a metà tra hip hop e indie, spensierato ma al tempo stesso introspettivo. Approfondiamone tutti i dettagli con il diretto interessato.
Ciao Merio, benvenuto. “Isola” è il titolo del tuo nuovo singolo, da quali spunti iniziali sei partito e a quali considerazioni sei arrivato?
«Questo brano fà parte di una trilogia di tre capitoli, ossia tre pezzi, “Madame Putain” è stato il primo, questo il secondo e poi ci sarà un terzo singolo di prossima uscita. In particolare ho voluto raccontare la mia ultima storia al contrario, dalla fine all’inizio. “Isola” è nata così, con il mio produttore abbiamo preso una casa in mezzo al nulla, per chiuderci per qualche mese a far musica. Dal punto di vista sentimentale stavo vivendo una situazione complicata con la mia ex, sai quelle classiche situazioni in cui qualsiasi cosa dici è sbagliata e combini solo e sempre più casini? Succede che, da un momento all’altro, ti trovi a non andare più d’accordo con il propria partner, senza nemmeno capirne esattamente i motivi. Questo inedito è un po’ una mia introspezione personale, un cercare di domandare a se stessi perché si è arrivati a questo punto».
E’ un brano che mescola malinconia e spensieratezza, come riescono a convivere dentro di te e, di conseguenza, nella tua musica questi due stati d’animo?
«E’ una domanda che mi faccio spesso, diciamo che caratterialmente ho molte sfaccettature, ci sono persone che sono più equilibrate mentre io sono l’esatto opposto, ci sono giorni in cui sono sù una montagna e altri in cui mi ritrovo sottoterra. Questo modo di conciliare sia up che down nelle canzoni mi esce naturalmente, di mio ho un’indole molto malinconica, ma sono anche uno che si diverte a non prendersi troppo sul serio, per cui queste due anime si compensano. Non è una cosa voluta, con la musica mi rapporto sempre in un modo molto naturale, lascio che le cose facciano il loro corso nei dovuti limiti, parto scavando dal mio profondo, cercando di tirar fuori ciò che intendo realmente comunicare».
Hai raccontato di aver avuto la necessità di isolarti per ritrovare te stesso, cosa hai scoperto e cosa hai trovato in questo periodo di introspezione?
«Ho imparato che nel momento in cui cerchi di forzare le cose niente và mai nel verso giusto, ci si trasforma in un’altra persona, mentre trovo sia importante mostrare se stessi, soprattutto nelle difficoltà. Avendo avuto poche storie d’amore, le ho sempre vissute a mille, nelle relazioni tendo a lasciarmi sempre un po’ travolgere, quello che ho capito da questa esperienza è che certe volte ci imponiamo cose che vanno contro il nostro bene. Nello specifico, a freddo, ti dico: “wow che bello sentirmi di nuovo io”. Proprio per queste ragioni, “Madame Putain” ed “Isola” hanno rappresentato per me un nuovo inizio, sia di vita che musicale».
Facciamo un salto indietro nel tempo, quando e come hai capito che tu e la musica eravate fatti l’uno per l’altra?
«Diciamo che, nello specifico, la prima volta che ho capito che tra di noi c’era del tenero è stato quando avevo diciassette anni, mia mamma si è ammalata ed è morta poco dopo. In quel momento così particolare e difficile della mia vita ho scoperto casualmente la musica, in particolare il rap, così ho iniziato con i primi freestyle. E’ un po’ come se avessi compensato la mancanza di mia madre con altro, nel momento in cui ho iniziato a scrivere è come se mi fossi liberato di un peso e mi sono sentito bene, ogni volta che finivo di riempire il foglio stavo un po’ meglio. Da lì ho iniziato ad avvicinarmi sempre di più a questo mondo, ma la spinta e la consapevolezza mi sono arrivate da dentro, in maniera molto intima e profonda».
Nel 2006 nascono i Fratelli Quintale, un duo che in nove anni ha ottenuto esponenzialmente riscontri positivi, guardandoti indietro… cosa ricordi di quegli anni? C’è qualcosa che ti manca o che cambieresti?
«Non cambierei niente di quello che ho e abbiamo fatto, ho ricordi bellissimi, perché è stata un po’ la mia nascita, da lì è partito tutto. Forse l’unica cosa che mi manca è la spensieratezza di quegli anni però, detto questo, a livello umano mi preferisco adesso, perché dopo tanti anni hai bisogno di nuovi stimoli e di nuove esperienze. Oggi è cambiato il mio modo di affrontare la vita, prima ero più combattivo, nel senso che quando hai vent’anni vivi tutto un po’ come una battaglia con il mondo, hai voglia di dimostrare di più e dare sempre il massimo. Poi, crescendo, capisci che in realtà tutte queste ambizioni non servono a un c***o, ma che semplicemente bisogna far le cose per star bene con se stessi, può sembrare una frase fatta, ma arrivare a metabolizzare questo concetto è stato piuttosto difficile».
Hai cominciato a fare hip hop quando il rap in Italia era ancora tutto campagna. Oggi che il genere è stato completamente sdoganato, secondo te, l’attuale generazione può essere indotta ad avvicinarsi più per moda che per altro?
«Beh, sicuramente, è un po’ come quando eravamo piccoli noi che tutti volevano fare i calciatori, adesso in tv ci sono i rapper che sono diventate le nuove star. Secondo me è una cosa più che naturale, sono super felice che sia diventato un genere così in voga, quando ero più giovane mi ricordo che ci consideravano un po’ come degli appestati (ride, ndr), mentre oggi la situazione si è capovolta, chiamiamola pure una sorta di riscatto sociale. Poi, certo, c’è chi si approccia in modo più intimo e chi invece lo fà solo perché fà figo, ma è come quando sei ragazzino e tifi Milan solo perché è primo in classifica, credo faccia parte del percorso naturale della società».
Da fruitore, che rapporto hai con la musica? Ti reputi un ascoltatore versatile o tendi a cibarti di un genere in particolare?
«Vado molto a periodi, magari da ragazzino ero fissato più per certe cose, mentre adesso ho la mente più aperta. Stamattina, ad esempio, stavo ascoltando i Buena Vista Social Club, per cui mi reputo uno che spazia molto, vado dall’elettronica alla trap, dipende dal momento, seguo l’istinto e le sensazioni a seconda del mio stato d’animo. Di certo, non ho un genere specifico, anche perché secondo me la musica di oggi è talmente contaminata che definirla con un unico genere è limitante, magari una volta c’era più una distinzione netta, oggi come oggi le influenze sono varie e questo ti porta ancora di più a spaziare».
Verso quale direzione vorresti si dirigesse la tua musica?
«Non saprei darti una definizione, però quello che so è che sto trovando la mia voce. Sono superfan della musica italiana, in particolare del cantautorato, quindi mi piacerebbe uscire a propormi anche in una veste più ricercata, per certi versi inedita. Vorrei portare una specie di cantautorato 2.0, passami il termine, anche se non amo le etichette, l’obiettivo è quello di andare verso una mia identità sempre più chiara. Magari fino ad oggi ho spaziato parecchio, quello che mi piacerebbe fare in futuro è seguire una mia linea, costruire una certa riconoscibilità».
Per concludere, hai dei particolari obiettivi per il futuro?
«No, mi piace vivere la vita giorno per giorno. Obiettivi particolari non ne ho, una volta ho scritto: “sei vuoi far ridere la luna raccontale i tuoi progetti” (sorride, ndr). Ognuno di noi può costruirsi chissà quali castelli per aria, pensare a mille robe, ma poi le cose succedono perché devono succedere, quindi per non farmi venire il sangue amaro e le paturnie cerco di vivermela nel modo più sereno possibile».
Nico Donvito
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