sabato 23 Novembre 2024

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Claudio Lippi: “Sanremo 2021? Provare nella vita significa vivere” – INTERVISTA

A tu per tu con il noto conduttore, per ripercorrere insieme la sua carriera tra passato e presente, con uno sguardo rivolto al futuro

La musica è una passione da custodire e coltivare a qualsiasi età, lo sa bene Claudio Lippi che ha mosso i suoi primi passi nel mondo dello spettacolo proprio come cantante, prima come solista e poi con il gruppo de I Crociati. Diversi 45 giri di successo negli anni ’60, per poi abbandonare la carriera nel decennio successivo, con l’affermazione del cantautorato che ha penalizzato numerosi interpreti che si sono ritrovati senza l’apporto artistico dei grandi autori. Da lì in poi la storia la conosciamo, la radio e la televisione lo hanno portato nelle case di milioni di italiani, con programmi cult come “Sette e mezzo”, “Giochi senza frontiere”, “Il pranzo è servito”, “Mai dire gol” e molti altri ancora. Terminata da poco l’esperienza con “La prova del cuoco”, si è lanciato nella nuova avventura di tubytv.it, una valida e innovativa alternativa online all’odierno concetto di tv tradizionale.

Ciao Claudio, benvenuto. Tutti ti conosciamo come presentatore e volto familiare del piccolo schermo, in realtà hai cominciato a muovere i tuoi primi passi proprio nel mondo della musica. Ci racconti com’è nata questa tua passione?

«La passione non si sa mai come nasce, te la ritrovi dentro, nel senso che si manifesta nel tempo, chi prima chi dopo, e non sai cosa sia realmente. Nel 1954, all’età di nove anni, andai con mamma in corso Sempione a Milano dove c’erano gli studi Rai perché c’erano dei provini per bambini, cantai “Mamma”, ricordo come fosse ieri le parole del Maestro che ci disse “Signora, lei non ha un figlio normale, ha un mostro”. In realtà non era inteso come un complimento, perché avevo già una voce possente e, per un bambino esile e mingherlino, fu ritenuta una sorta di mostruosità, poi l’ho anche un po’ compresa la cosa. Mamma divenne bianca, mi prese per mano e mi porto via dicendomi: “Non capiscono niente, tu un giorno andrai a Sanremo!”. Oggi, all’età 75 anni, penso di avere la canzone giusta tra le mani».

Quindi ti candiderai ufficialmente alla prossima edizione del Festival?

«Sì, lo scorso anno ho presentato la canzone l’ultimo giorno, quando i giochi ormai erano fatti, parlai direttamente con Amadeus, che fra l’altro è un carissimo amico, conoscendolo sapevo che avrebbe fatto un Sanremo molto popolare, nel senso nobile del termine. Onestamente mi disse che non sapeva nemmeno se sarebbe riuscito ad ascoltarla in extremis, quindi ci riprovo quest’anno nei tempi corretti e facendo tutte le selezioni necessarie. Credo molto in questo pezzo composto da Luca Rustici e Philippe Leon, quando l’ho ascoltato ho pianto come la prima volta che sentii “Meraviglioso” di Domenico Modugno, per me una sorta di mito, di faro, di punto di riferimento, tanto da avergli dedicato con grande umiltà qualche anno fa un cd in cui reinterpretavo, a modo mio, le sue bellissime canzoni».

Qual è il tuo rapporto con la kermesse? In primis da spettatore e poi da professionista, per capire se negli anni si è mai palesata la possibilità di una conduzione…

«Sanremo è un fenomeno piuttosto inspiegabile, come il colibrì che ha un’apertura alare che scientificamente non potrebbe permettere di volare e, invece, vola. Da sempre si basa anche sul gossip, sul pettegolezzo, sulla polemica e quant’altro, portandolo negli anni a perdere quella che è un po’ il suo ruolo originale, ovvero il Festival della canzone italiana, concetto ampiamente superato poiché la musica è diventata man mano secondaria. Non dimentichiamoci che ci siamo giocati al suo debutto un signore come Vasco Rossi, ma tanti grandi artisti eliminati che non sono stati del tutto compresi. Sanremo ha settant’anni, cinque anni meno di me, lo seguo da quando sono bambino, come cantante mi si era presentata l’occasione di partecipare tanti anni fa, come direttore artistico ricordo che c’era Gianni Ravera, lui aveva accettato la mia candidatura con “E se domani”.

Penso di non svelare chissà quale segreto, ma c’era un meccanismo per il quale la discografia più munifica era un po’ più favorita di quella senza una lira, la mia etichetta in quel momento era rappresentata da un signore che non aveva intenzione di investire pagando una presenza al Festival, non fu raggiunto un accordo e non partecipai. Come conduttore, invece, è chiaro che facendo questo mestiere mi sarebbe anche piaciuto. Ho la fortuna di possedere sia l’incoscienza che il coraggio di mettermi in gioco, anche se alcuni potranno pensare “vai in pensione” o “vai a cantare all’ospizio”, auguro a tutti di arrivare alla mia età, e andare anche oltre, avendo ancora la passione e tanti sogni da tirare fuori dal cassetto. La mia età è solo su un documento, dentro ne ho un’altra. Quindi mi presento con grande entusiasmo con una canzone in cui credo ma che sarà sicuramente scartata, comunque sia potrò dire di essermi candidato ufficialmente. Provare nella vita significa vivere, chi non prova sbaglia e sbagliando muore ogni giorno, senza nemmeno accorgersene».

Musicalmente parlando gli anni ’60 sono stati straordinari, tu provieni da lì, da quel fermento artistico, melodico e cantautorale. La musica riflette sempre la propria epoca, oggi la pochezza che percepiamo da determinati generi musicali, soprattutto legati al mondo più giovanile, è rappresentativa di ciò che viviamo. Riesci a farci un parallelismo tra i tuoi esordi e l’attuale contesto storico? 

«Temo non sia possibile, non credo che si possano considerare parallele le due epoche, in mezzo alle quali se ne sono sviluppate molte altre, perché c’è stato progressivamente un degrado generale, non saprei nemmeno definire da dove sia partito, perché ormai è praticamente impossibile individuare il bandolo della matassa. Personalmente ho smesso di cantare dopo che, con l’avvento degli anni ’70, gli editori hanno spinto gli autori a eseguire le proprie canzoni, limitando il bacino degli interpreti. Questo è stato il primo grande cambiamento, poi ne sono arrivati altri, non dimentichiamoci la tecnologia e internet che hanno portato un sacco di possibilità in più, rendendo tutto ancora più difficile rispetto ai miei esordi, perché oggi ci vuole decisamente più fortuna, ad esempio i talent, rispetto alla quantità di proposte non possono certo soddisfarle tutte. Non vorrei sembrare offensivo, ma Sfera Ebbasta rappresenta una realtà che non mi appartiene, perché parla di stupri e di droga, secondo me dovremmo essere noi responsabili dei nostri successori, far capire loro che quello che si dice rischia di diventare un modello. E’ una moda, una moda che va ad abbracciare un pubblico molto influenzabile, che ancora non possiede capacità critica».

Quello che ho sempre apprezzato del tuo modo di fare televisione sono il garbo e l’ironia, mi scappa un paragone con Raimondo Vianello e Corrado. Ok, questo parallelismo tra le due epoche non si può fare, sono d’accordo con te, probabilmente perché mancano questo genere di figure di riferimento. Quali sono stati i tuoi maestri?

«Li hai appena citati. Hai ragione, di grandi maestri non ce ne sono più, ma non perché non esistono, bensì per questo meccanismo volto a produrre contenuti ventiquattro ore al giorno su un numero di canali indefinibili. Cè molta confusione in giro, anche nella musica, quando sento dire “questo è un pezzo rock” fatto da un gruppo moderno, è un po’ come parlare di carbonara vegana, non possiamo chiamarla così, al massimo potremmo definirla “tofunara”. Lasciato il canto, ho capito di poter fare questo mestiere proprio perché avevo avuto modo di ascoltare, vedere e frequentare Raimondo e Corrado, in loro ho trovato determinate caratteristiche, non ho copiato nessun, loro sono “incopiabiali”, come anche Mike Bongiorno ed Enzo Tortora. Ho capito la loro ironia, la stessa che mi sembrava di possedere anch’io, l’ho semplicemente tirata fuori e mi è venuto naturale seguire quel filone».

Sempre più spesso si parla di televisione trash, in tal senso penso tu sia l’unico esemplare bipede al mondo ad aver abbandonato una trasmissione proprio perché non ne sposava i contenuti. Mi riferisco a “Buona Domenica”, non voglio riaprire una questione di quattordici anni fa, ma mi rattrista pensare che la situazione nel tempo sia andata peggiorando e che nessuno abbia seguito il tuo gesto, fino ad arrivare a quello che hanno rappresentato un certo tipo di intrattenimento e un certo tipo di informazione durante la pandemia. I media sono stati molto criticati, ma in generale negli ultimi anni, tu stesso di recente sei stato “vittima” delle fake news. Qual è il tuo pensiero a riguardo?

«Non può essere un pensiero, è un malessere, un’impossibilità di opporsi, perché poi alla fine se esiste questo sistema vuol dire che è accettato e sostenuto da chi ne fa parte. Io spero sempre che il buon gusto prevalga, che si approfondisca sociologicamente questo genere di fenomeni, perché la violenza con cui molto spesso gli haters esprimono il proprio dissenso è figlia dei nostri tempi. Secondo me è questo il vero trash, la critica gratuita che non porta nulla né a chi la fa né a chi la riceve. In tal senso mi sento di rivolgere un’autocritica nei confronti della mia generazione, personalmente non ricordo da quanto abbiamo cominciato a parlare dei giovani come se non lo fossimo stati noi, quando sento o leggo di ragazzi che vanno all’estero per coltivare le proprie passioni o i propri sogni mi rendo conto che non abbiamo costruito niente, anzi, abbiamo addirittura distrutto la scuola, il valore dell’insegnamento. Credo che si sia accumulata una tale rabbia che colpisce le persone psicologicamente più fragili, come quella di chi spaccia per tifo la violenza negli stadi. Riguardo le fake news sì, è un qualcosa che mi da molto fastidio, ribaltare delle affermazioni per fare notizia lo trovo squallido, da un raffreddore finisce che l’ultimo dei blog scrive che hai un tumore».

Tornando a Sanremo, è apprezzabile questo tuo voler rimetterti in gioco, con una carriera così importante e longeva alle spalle, non tutti rischierebbero anche solo di esporsi con una candidatura, così come in pochi ricomincerebbero da capo, proprio come stai facendo con Tuby.tv, questo nuovo contenitore televisivo online. Cosa ti sta regalando questa nuova esperienza?

«La gioia di sperimentare, di conoscere e comprendere un mondo che per anagrafe, e qui lo riconosco, non mi è proprio così congeniale. Non ci dimentichiamo che, anche in termini commerciali, Berlusconi ha aperto una nuova strada sul finire degli anni ’70 con le reti private, all’epoca c’erano solo i due canali Rai, io sono stato il primo ad essere chiamato, poi sono arrivati tutti gli altri. L’intuizione geniale è stata quella di seguire quello che era stato fatto in precedenza, prendere spunto, senza azzerare totalmente la storia della tv, ricordo ad esempio “Premiatissima” che seguiva le orme di “Canzonissima”. Tornando al presente, questa nuova avventura mi sta divertendo e mi sta insegnando tanto, ma non ancora ad essere sintetico, ci sto lavorando (sorride, ndr)».

Per concludere, un’ultima riflessione legata al momento storico che abbiamo vissuto e che speriamo di aver lasciato definitivamente alle spalle. Sotto diversi punti di vista, è indubbio che la nostra società pre-Covid stesse affrontando un lungo momento di freddezza sociale, di rincorsa al futile. Qual è l’augurio che ti senti di rivolgere alla comunità del futuro? E cosa speri che questa situazione estrema di difficoltà ci abbai insegnato?

«Credo che non rimarrà niente di quella meravigliosa capacità molto italiana di affacciarsi ai balconi, di esporre le bandiere come non si faceva dai tempi dell’ultima vittoria delle nazionale di calcio ai campionati del mondo. Da quando abbiamo avuto maggiore libertà, sulla quale invito ad avere ancora molta prudenza, temo che ci sia stato addirittura un ulteriore aggravamento di distanza sociale. I problemi in Italia c’erano già prima del Covid, il virus non ha fatto altro che scoperchiare una serie di tappeti sotto i quali era nascosta molta polvere. Personalmente mi manca parecchio quello scambio emotivo contenuto in un abbraccio, invece finito il lockdown le prime cose che sono state fatte sono gli apertivi e i selfie più improbabili. Mi sembra che questa grande lezione non l’abbiamo imparata del tutto, non voglio generalizzare ma in linea di massima penso sia così, perché abbiamo poca memoria e tendiamo a bruciare velocemente i ricordi».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.