A tu per tu con Federico Zampaglione, all’indomani della pubblicazione del nuovo album “Ho cambiato tante case“
Carattere e passione, la musica dei Tiromancino viene alimentata dall’anima e dall’entusiasmo di Federico Zampaglione, deus ex machina di un progetto che continua a coinvolgere ammiratori e ispirare nuove generazioni di cantautori. “Ho cambiato tante case” è un disco ricco di collaborazioni con esponenti dell’attuale scena indie romana come Gazzelle, Franco126, Galeffi e Leo Pari, ma anche nomi di prestigio e ampiamente consacrati, come l’intensa Carmen Consoli e la leggenda Alan Clark, noto per essere stato il tastierista dei Dire Straits. Un disco da gustare a da proteggere a suon di ascolti attenti e profondi.
Ciao Federico, bentrovato. Da quali riflessioni e da quali lidi interiori provengono queste nuove tracce di “Ho cambiato tante case“?
«In questo album c’è un po’ un’ispirazione a 360 gradi, cogliendo vari argomenti e vari periodi. Come sempre ci sono i miei ricordi, ma anche tanto presente e uno sguardo attento verso il futuro. C’è una dedica a mio padre e un omaggio a Roberto Ciotti, musicista blues che mi ha ispirato all’inizio della mia carriera. Ci sono momenti più romantici e momenti in cui ci si interroga sul proprio percorso. E’ un disco che rappresenta tante diverse sfaccettature, a questo si deve la scelta del titolo. Sono tanti gli stili musicali a cui mi sono ispirato, ci sono ospiti che vanno dalle giovani leve del cantautorato a un’autrice intensa come Carmen Consoli, oppure un musicista gigantesco come Alan Clark.
Il titolo “Ho cambiato tante case” credo che rappresenti lo spirito di fondo di questo progetto, registrato in un tempo piuttosto largo, in tre anni di lavoro abbastanza costante. Fare un disco non significa solo scrivere e incidere, bisogna anche e soprattutto riascoltare. Le canzoni cambiano a seconda del luogo in cui le senti, per questo mi sono concesso la possibilità di testarlo nel tempo e su vari fronti. L’ultimo ascolto l’ho fatto questa notte, in qualche modo per salutarlo e per lasciarlo andare, perchè sapevo che di lì a poco non sarebbe stato soltanto mio».
Per facilitare anche il nostro lavoro giornalistico di scrittura: questo è un disco di Tiromancino o dei Tiromancino? Cioè, in questo momento lo consideri più un progetto al singolare o al plurale?
«In realtà sono tanti anni che faccio da perno e fulcro centrale di questo progetto musicale, che per certi aspetti mi vede al centro. Quello che cambia è l’approccio condiviso all’interno della realizzazione di un disco. Anche in questo caso sono intervenute parecchie persone. Io mi sono occupato di seguirne la regia, di fatto la produzione artistica è firmata da me. Lo considero una specie di collettivo, mettiamola così, dove poi alla fine cerco di tirare personalmente le somme di questo lavoro. La visione generale non è quella del vero cantautore, che si chiude in se stesso e produce da solo. Nel progetto Tiromancino c’è ancora un’anima da band di fondo, motivo per il quale non ho mai fatto dei dischi a nome mio, perché mi piace mantenere saldo questo approccio da collettivo».
Sei uno dei pochi che scrive ancora canzoni da difendere, mi piace definirti in questo modo, perchè non segui dettami imposti dalle regole del momento, ma non ti chiudi nemmeno in una qualche zona di comfort. Come fai ad estraniarti da ciò che c’è intorno e, al tempo stesso, a buttare un occhio sulla scena e scegliere lucidamente i giusti innesti da apportare?
«Guarda, è una cosa che non è calcolata. Tendo a seguire il mio flusso di ispirazione, sceglie lui dove portarmi. Mi piace confrontarmi con altre realtà, non ho mai avuto un atteggiamento di chiusura, diciamo che in tutte le mie case c’è sempre stata la porta aperta e all’interno può entrarci chi vuole. I rapporti con i ragazzi presenti nel disco sono nati casualmente, ci legava il fatto che loro conoscessero la mia produzione e che io conoscessi i loro dischi. Il bello della musica è che non segue una logica di età, così come quando io scrivevo con Franco Califano o suonavo con Lucio Dalla, anche se erano più grandi di me si creavano delle sinergie che andavano al di là del discorso anagrafico.
Ti ringrazio per la bella definizione perchè le canzoni oggi vanno difese, ma questo deve partire innanzitutto da noi che le scriviamo. Non bisogna stare troppo dietro a discorsi industriali o seguire le logiche degli algoritmi, ma se sei un appassionato del successo lo fai per raggiungere il tuo obiettivo. La mia fortuna è quella di essere un appassionato di musica, il che è diverso. Per cui quando incidi canzoni come “Domenica”, “Finché ti va” o “Cerotti” sai che devi difenderle, perchè non possiedono gli elementi di particolare moda legati a questo momento storico. Devi cercare di salvaguardarle soprattutto nella fase iniziale, per non farle schiacciare dal frettoloso mercato basato sul profitto immediato. Quando te le ritrovi vent’anni dopo passare per radio, capisci che quella difesa è stata importante».
Nella tua musica e in questo disco sono presenti anche elementi elettronici, usati con criterio ed esperienza. L’elettronica è uno strumento che bisogna saper dosare, altrimenti il rischio è che passi di moda velocemente, mentre il suono di una chitarra o di un pianoforte resta uguale per sempre. Qual è il tuo pensiero a riguardo?
«Esistono una serie di macchine che ti garantisco una durata nel tempo. Poi però c’è stata l’ondata del plug-in e la conseguente emulazione di tutti quei suoni fatti a buon mercato da un computer. Per cui si è cominciato a non usare più un vero moog, un vero prophet, un vero pianoforte roll. Il problema è che quel tipo di elettronica lì, dopo un anno, diventa inascoltabile perchè invecchia in una maniera assurda e ti distrugge un disco. Quel tipo di frequenze non sono destinate a durare a lungo».
Tra le definizioni che possiamo utilizzare per descriverti, c’è quella di padre fondatore del nuovo cantautorato. Ti riconosci in questa affermazione e, soprattutto, riscontri nelle nuove leve una sorta di affezione o di riverenza nei tuo confronti?
«Un po’ sono un genitore dell’indie perché provengo proprio da lì. Negli anni ’90 c’era l’indie rock, spesso legata alla scena dei centri sociali. C’erano riviste musicali in cui si parlava quasi solo di queste realtà. Noi stavamo un po’ a metà, perché eravamo parte di quella scena, ma rivendicavamo una nostra voglia di sperimentare utilizzando la classica forma-canzone all’italiana. Questa cosa ci faceva faticare di più. Nei primi anni duemila siamo riusciti a mettere a fuoco questo lavoro, creando delle melodie che hanno cantato un po’ tutti, con dei suoni provenienti da quel mondo. Questo è simile all’indie di oggi. Anch’esso non estremizzato, con melodie e testi di facile comprensione.
In questo senso c’è un legame diretto, anche perchè le cose non succedono mai per caso. Tutte queste collaborazioni sono frutto della stessa matrice, dello stesso approccio e dello stesso modo di essere. Da parte loro non c’è assolutamente reverenza, però c’è stima e il riconoscermi che quel lavoro è stato fonte di ispirazione, come io riconosco nei loro riguardi lo stesso merito, perché hanno rinnovato lo scenario italiano. Questa nuova scena di cantautori ha portato altre immagini e un linguaggio diverso, rinfrescando il concetto di canzone. La cosa più bella per me è vedere il mio lavoro apprezzato dalle nuove generazioni. Una cosa non affatto scontata».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica in tutti questi anni di attività?
«L’insegnamento più grande è quello di amare la musica e non avere aspettative. Fai ciò che ami, non ti lasciare condizionare, ma allo stesso tempo non ti aspettare niente. Fallo con passione, perché fare musica è un gesto d’amore. Se vuoi arrivare al cuore, mettici il cuore, punto».
Nico Donvito
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