A tu per tu con l’artista campano, in uscita con il suo settimo album in studio intitolato “Black Pulcinella“
La rinascita di Clemente Maccaro, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Clementino, parte dalla sua nuova musica, più consapevole e ispirata che mai. “This is real rap” verrebbe da dire ascoltando le quindici tracce che compongono la scaletta di “Black Pulcinella”, album che segna il suo passaggio discografico in Sony Music, oltre che un ragguardevole e sentito ritorno alle origini e al suo amato hip hop. Il risultato è una panoramica nitida e autentica sul mondo dell’artista, tra sogno e realtà.
Ciao Clementino, benvenuto. Partiamo da “Black Pulcinella”, come si è svolto il processo creativo di questo progetto?
«Il processo creativo è durato due anni, subito dopo il lockdown siamo andati in giro tra la California e l’Italia, muovendoci tra varie città americane e località del nostro Paese, proprio per scrivere e realizzare questo disco. Sin dall’inizio, l’obiettivo era quello di ricreare un sound molto west coast, mi piace il Boom Bap, quel suono alla Snoop Dogg che, insieme a Eminem, Dr. Dre, Kendrick Lamar, The Game, sono sempre stati per me fonte di ispirazione. Quindi, volevo ottenere un suono così, perché ultimamente il panorama rap mi sembrava tutto uguale. Più che una copia di una copia, però, tutto questo doveva essere declinato ad una sorta di evoluzione personale».
Nelle barre, nei beat e nelle intenzioni, questo è un album hip hop dalla prima all’ultima traccia. Una sorta di ritorno alle origini se vogliamo, a “Napolimanicomio” e “I.E.N.A.” per intenderci. Ha tutta l’aria di essere un disco che non scende a compromessi, libero da pensieri legati alle playlist e da ansie da classifica…
«Ho sempre fatto il mio, cercando un’evoluzione nelle mie cose, senza pensare al resto. In passato ho avuto l’onore di ospitare nei miei dischi artisti del calibro di Pino Daniele, Jovanotti, Caparezza e altri protagonisti della scena pop. In questo nuovo progetto, invece, ho voluto includere solo l’hip hop, compresi gli ospiti che sono tutti più giovani di me (Enzo Dong, Rocco Hunt, Geolier, J Lord, Speranza, Madame, Nicola Siciliano, Mattak, Nello Taver, Nerone, La Nina ed Ensi), al punto che sembra quasi un disco di Zio Clemente più che di Clementino (sorride, ndr). Sono contento perché il risultato sta piacendo a tutti, probabilmente perché ho lavorato il doppio rispetto al solito. Ho composto circa un centinaio di pezzi ed è proprio vero quello che dice Bukowski: “più scrivi e più riesci a capire te stesso”. Infatti, tutto questo lavoro mi ha permesso di comprendere quale direzione prendere».
Quanto ha inciso il cambio di etichetta discografica nel ritrovare questo tipo di approccio e, perché no, magari nuovi stimoli?
«Mi sono trovato benissimo con la Sony, è una squadra che lavora benissimo e che mi ha capito sin dall’inizio. Sono super onorato di lavorare con loro, anche perché siamo riusciti subito a trovare un feeling. Hanno compreso che volevo fare tante cose, una diversa dall’altra, per cui ci siamo trovati sulla stessa lunghezza d’onda. Sai, in passato ammetto di aver commesso molti errori, non solo nella mia vita privata, ma anche in ambito professionale. Mi è capitato di non apprezzare quello che avevo, un po’ come se tutto mi fosse dovuto. Ad esempio prima mi scocciava fare le interviste, mentre oggi ne comprendo l’importanza. Avendo raggiunto la maturità dei quarant’anni, sto scoprendo la bellezza di lavorare con la musica. Ho realizzato che la promozione serve a me, per far conoscere al pubblico le mie produzioni e non per fare un piacere al giornalista di turno. Quando si è più giovani si commette l’errore di sottovalutare certi aspetti, ma crescendo ti rendi conto e cominci ad entrare in un’ottica differente, allora cominci a prepararti per arrivare in forma alle interviste e alle conferenze stampa».
Nel rap è consuetudine lavorare con produttori differenti, anche se ultimamente si è un po’ persa la ricerca dell’identità sonora di un disco, con il conseguente rischio che le tracce risultino slegate tra loro, qualcosa che si avvicina più al concetto di playlist che di album. In “Black Pulcinella”, invece, ritrovo un filo conduttore e una coerenza sonora, nonostante sulle basi ci abbiano messo le mani professionisti diversi. Che tipo di lavoro c’è stato dietro la ricerca del suono?
«In genere non scrivo mai canzoni dal nulla, parto strimpellando la chitarra oppure facendomi mandare da vari produttori le cartelle con i beat. A seconda delle suggestioni che mi evoca un determinato suono io scrivo, di getto, lasciandomi andare alle emozioni. LDO ed Endly, i miei due produttori di fiducia, mi hanno dato ancora una volta una grossa mano nel mettere insieme tutto, lavorando anche con Zangirolami da Milano e con i vari produttori da Los Angeles (Ettore Grenci, Scoop De Ville e Diego Cordoba). Così sono riuscito a mettere insieme un solo suono, traslocando il Boom Bap direttamente dal west coast al territorio italiano».
In “Black Pulcinella” convivono un po’ queste tue due anime: l’amore per la tua terra natia e per la musica afro-americana. Sin dai tuoi esordi era chiaro che nelle tue vene scorresse Pino Daniele ma anche Eminem, mondi apparentemente distanti che sei riuscito a racchiudere in tuo stile unico e ben riconoscibile. Hai anche tu l’impressione che questa ricerca oggi ci sia un pochino meno? Come credi sia cambiata la scena in questi ultimi anni?
«La scena è cambiata così come è cambiato il mondo. Personalmente ho visto passare tutte le ere della musica, ma la chiave è quella di mantenere l’originalità e questa si ottiene restando sempre se stessi, altrimenti finisci per sembrare un clone di qualcosa di già esistente. Ho sempre cercato di guardare la mia strada, di evolvermi verso il futuro attraverso nuovi suoni, ma di mantenere alla base lo “stile Clementino”. Non potrei mai fare la trap, mi sentirei ridicolo, perché a quarant’anni non riuscirei ad utilizzare gli stessi codici della generazione Z. Al contrario, sono contento perché molti ragazzi giovani hanno ascoltato e apprezzato “Black Pulcinella”, questo per me è un bel traguardo».
Un bel traguardo perché, per tornare alle origini e all’hip hop, hai davvero fatto un giro piuttosto lungo nella musica. Penso all’esperienza teatrale, alla cover di De Andrè a Sanremo, oppure a ballate come la bellissima “Univers” presente in questo nuovo disco o “Mare di notte” nel precedente. Credo che tutto questo ti sia servito per tornare a fare rap anche in maniera diversa rispetto a quando avevi iniziato…
«C’è una frase che dice Toni Servillo nei panni di Jep Gambardella ne “La grande bellezza”, dove in pratica sostiene di essere arrivato all’età in cui si è scocciato di fare le cose che non gli va di fare. Per me è un po’ la stessa cosa, perché mi è capitato di sforzarmi per accontentare tutti, ma alla fine non soddisfavo né gli altri né tantomeno me stesso. Quindi, a che pro? Ad un certo punto mi sono accorto che la gente voleva ciò che volevo io, “Clementino spacca ‘e vetrine” e “Cos cos cos ‘o frat cos”. Allora ho realizzato che sarebbe stato meglio tornare all’hip hop, anche perché la versione mainstream non mi serve nella musica, già la televisione mi permette di arrivare alle persone in tal senso, con “The Voice Senior” o “Made in Sud” per esempio. Non voglio macchiare la mia musica cercando il consenso a tutti i costi, desidero fare rap e questo farò per sempre».
Per concludere, hai cominciato a rappare nel ’96 e avendo superato le nozze d’argento con la musica, ti chiedo: qual è la lezione più importante che senti si aver appreso da questa nobile forma d’arte fino ad oggi?
«Gli insegnamenti sono tanti, almeno tre: il primo è lavorare tanto, il secondo è non dare mai nulla per scontato e il terzo è quello di essere gentile con tutti, perché non si sa mai dove può arrivare la persona con cui ti stai interfacciano e dove puoi arrivare tu. Quindi, cercare di trattare tutti allo stesso modo, a prescindere quanto possa essere famoso o meno il nostro interlocutore. Anche perché nessuno può garantirti il successo, anzi, oggi come oggi è più facile raggiungerlo che mantenerlo nel tempo. Un po’ la stessa lezione che ho ricevuto quando lavoravo nei villaggi di animazione, perché la comunicazione è importante a prescindere che il tuo lavoro si svolga per strada o in Parlamento».
© foto di Narciso Miatto
Nico Donvito
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