L’artista campano racconta le tracce del suo ultimo album, più maturo e meno istintivo rispetto al passato
La rinascita di Clemente Maccaro, in arte Clementino, parte dalla sua nuova musica, più consapevole e ispirata che mai. Si intitola “Tarantelle” il suo ultimo progetto discografico, in uscita per Universal a partire da venerdì 3 maggio, un lavoro concepito tra Napoli, Nola, Cimitile (il suo paese), Camposano, Milano, Amsterdam, Lisbona. Benevento, Alberobello, Vietri sul Mare e il Cilento. In copertina appare l’artista all’età di sedici anni, in piena adolescenza, quando diventare una rapstar era il suo più grande sogno. Un lungo lavoro che ha impegnato il talento campano per circa un anno e mezzo, infatti, per questo album sono state scritte e registrate oltre settanta tracce, per poi arrivare alle definitive quattordici.
«Rispetto a “Vulcano” questo è un disco più lucido e ragionato – racconta il rapper – ho scritto tantissimo e ho avuto il tempo per lavorarci. In passato ho partecipato a due Festival di Sanremo consecutivi, mi sono ritrovato a realizzare album uno dietro l’altro, quello che scrivevo usciva. “Tarantelle” è un progetto molto più maturo, corretto e ricorretto in ogni sua rima o parola, ho lavorato davvero tanto».
Tra le canzoni che emergono sin dal primo ascolto, “Un palmo dal cielo” parla dei sogni che l’artista ha fatto realmente quando era in comunità: «Appena sveglio scrivevo su un pezzo di carta il tema del sogno appena concluso e poi, quando sono tornato a casa, ho messo tutto in rima», mentre in “Diario di bordo” ripercorre cronologicamente i suoi impegni personali e lavorativi presenti nella sua agenda, in un periodo che va da marzo 2018 a gennaio 2019.
Un album sotto il segno del “real rap”, a cominciare da “Gandhi”, l’ultima traccia scritta, ma la prima ad uscire come singolo e a comparire in tracklist. I brani “Alleluia”, “Hola!”, “Babylon” e “Chi vuol essere milionario” (impreziositi da quattro speciali featuring rispettivamente con Gemitaiz, Nayt, Caparezza e Fabri Fibra) sono dei pezzi rap scanzonati e divertenti che ben si prestano alla dimensione live, mentre ne “La mia follia” le atmosfere si fanno più delicate, con il testo incentrato sulla storia di un ragazzo che sta morendo per un’overdose di cocaina.
«La musica aiuta sempre – prosegue Clementino – quando scrivi una canzone sei influenzato da quello che hai intorno, se stai attraversando un brutto periodo si sente. Quello che posso dire è che la musica ha salvato la mia vita, perché nei momenti di difficoltà, anziché perdere tempo in strada a fare cose brutte, mi sono chiuso in studio con i miei musicisti fidati a tirare fuori canzoni. “Tarantelle” mi ha aiutato a rialzarmi dal baratro in cui stavo cadendo, ho passato anni d’inferno, comunità per due volte, quello che posso dire oggi è che sto bene, sono felice e mi voglio godere la vita da cantante».
Non manca una critica nei confronti di alcuni protagonisti della nuova scena musicale: «Credo di essere uno dei superstiti della vecchia generazione, non parlo assolutamente male della nuova, quello che condanno è l’atteggiamento che ci sta spingendo a considerare soltanto i like, a concentrarci troppo sull’apparenza, a discapito di quelli che sono i valori e i dogmi dell’hip pop, in primis saper rappare e andare a tempo, mettendoci un minimo di stile. Il problema sono quelli che vogliono prima apparire e poi imparare a fare il rap, saltando l’abc. Per non parlare delle tematiche, di tutti questi ragazzi che inneggiano alla droga come se fosse una cosa bella, io so quello che ho passato a causa della cocaina, mi verrebbe voglia di andare da loro e dirgli “ragà ma che cxxxo state dicendo?!”».
A tal proposito, ci tiene a precisare: «Sia chiaro, non sono contro le nuove generazioni o tantomeno contrario alla trap, altrimenti non avrei coinvolto un giovane come Nayt, che considero bravo e interessante. Mi piace coinvolgere i ragazzi, aiutarli nel mio piccolo, in Campania organizzo gare di freestyle e negli altri album con il progetto “Messaggeri del Vesuvio” ho in dato spazio a diversi rapper napoletani, mi sento per loro un po’ come un fratello maggiore».
Per concludere, visto l’impegno nei confronti dei giovani artisti e la sua irresistibile verve, gli abbiamo chiesto un pensiero sui talent show e se parteciperebbe in veste di coach/giudice. Dopo una breve pausa di celentaniana memoria, ha risposto: «Sì, per ben dieci anni ho lavorato nei villaggi d’animazione, mi piace lo spettacolo, credo di avere una buona comunicazione con tutti, riesco a inquadrare subito le persone e, per un giudice di una talent, trovo sia fondamentale capire chi hai davanti. Forse non lo farei adesso perché sono impegnato troppo con la musica, ma in futuro chissà, mi piacerebbe fare in generale lo showman, penso sia la mia dimensione ideale».
Nico Donvito
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