A tu per tu con il noto cantante e chitarrista emiliano, fuori con il doppio album dal vivo intitolato “Perle“
“Prima che musicisti bisogna ricordarsi di essere uomini”, così Dodi Battaglia concluderà questa piacevole intervista, ma è da questa frase spoilerata che vorrei cominciare il ritratto di un artista che, da oltre cinquant’anni, ha sempre portato avanti di pari passo valori umani e talento.“Un’anima” è il titolo del suo ultimo singolo contenuto nel suo doppio album dal vivo “Perle“, pubblicato lo scorso 15 marzo. All’interno del lavoro alcune delle canzoni più rappresentative della poetica dei Pooh, tra cui spiccano: “Cercami”, “È bello riaverti”, “Quando lui ti chiederà di me”, “Cara bellissima”, “Orient Express”, “Inutili memorie”, “Oceano”, “Aria di mezzanotte”, “E vorrei”, “Come si fa” e molte altre ancora.
Partiamo da “Un’anima” il tuo nuovo singolo, firmato con Giorgio Faletti, come è arrivato questo pezzo e cosa rappresenta per te?
«E nato da una chiacchierata come questa, realizzata più o meno un anno fa per la Gazzetta del Mezzogiorno di Bari, il giornalista che ha condotto l’intervista mi ha chiesto come mai da qualche tempo non tiravo fuori qualcosa di inedito. La mia risposta è stata come sempre sincera, oggi come oggi non mi sento in concorrenza con altri colleghi o con ciò che c’è intorno, bensì con il mio mio passato, perché quando faccio qualcosa di nuovo i termini di paragone sono inevitabili, Per cui la conclusione è che riesco a rimettermi in gioco soltanto quando c’è una grande motivazione alle spalle.
Poi, guardando un servizio in televisione in cui si parlava del mio amico Giorgio Faletti, con il quale ho condiviso un rapporto molto profondo, oltre che per la musica anche per le corse automobilistiche, mi si è accesa una lampadina e non mi sono fatto pregare due volte, così ho chiamato la sua carinissima moglie, chiedendole se ci fosse traccia di scritti o di appunti di Giorgio in giro per casa. Dopo qualche giorno mi ha mandato qualche brano, tra cui c’era “Un’anima”, che mi ha colpito immediatamente per la sua straordinaria bellezza, ho intuito che fosse la grande occasione che stavo cercando per ricominciare a lavorare ad un nuovo progetto. E’ stato molto stimolante perché il pezzo era in una veste embrionale, ho dovuto completarlo perché quando ho messo mani alla musica è stato necessario allungare il testo, aggiungendo io stesso diversi versi».
Com’è stato portare a compimento l’idea e l’intuizione di un amico?
«Mi sono approcciato con grande rispetto e con molta modestia perché nasco come compositore, in passato ho scritto anche testi ma non è mai stato l’aspetto al quale mi sono dedicato maggiormente, perciò ho cercato di andare con i piedi di piombo. Conoscendo bene Giorgio ho provato a pensare con la sua testa, immedesimandomi e concentrandomi su quello che lui avrebbe voluto dire nelle parti mancanti. Fortunatamente credo di esserci riuscito perché nessuno, almeno fino ad adesso, mi ha fatto notare che la mia parte sia più debole della sua (sorride, ndr). Insomma, è stato molto bello lavorare a questo brano perché mi sono calato nei panni di un amico».
“Un’anima” è incluso nel tuo ultimo disco “Perle”, uscito lo scorso 15 marzo, un doppio album che ripercorre la storia dei Pooh e, di riflesso, cinquant’anni di storia della musica leggera italiana. Come hai selezionato le tracce presenti?
«”Un’anima” la considero un po’ la perla tra le perle, l’unico inedito in studio che ho inserito in questo mio progetto dal vivo che ho registrato un paio di mesi fa durante la mia tournée omonima, in cui ho ripercorso un po’ tutti gli anni trascorsi con i Pooh. Ho scelto di non rivisitare le canzoni più eclatanti o quelle di maggior successo, bensì quelle più profonde e, in un certo senso, forse più belle del nostro vasto repertorio».
Qual è l’aspetto che più ti affascina nella composizione di una canzone?
«Onestamente non mi sono mai posto questa domanda, essendo io un musicista probabilmente tendo a privilegiare la linea melodica che poi, in sostanza, e alla base di qualunque brano che ho composto e dove, puntualmente, Valerio Negrini o Stefano d’Orazio inserivano le loro bellissime parole. Dal mio punto di vista la musica è il tappeto su cui si costruisce l’intera canzone, capisco che per molti può essere il contrario, ma essendo un musicista il mio approccio è questo».
So che è impossibile spiegare il motivo di un colpo di fulmine, ma cosa ti ha colpito così tanto della chitarra da renderla la tua compagna di vita da oltre cinquant’anni?
«Intanto va premesso che io non nasco come chitarrista, ho cominciato a suonare all’età di cinque anni, provengo da una famiglia di musicisti per cui ho iniziato molto ma molto presto. Ho suonato la fisarmonica più o meno fino all’età adolescenziale, quando un giorno in un grande magazzino di Bologna ho sentito un suono celestiale e lì sono rimasto affascinato e innamorato di questo strumento, così sono diventato chitarrista (sorride, ndr), è proprio come dici tu: non c’è mai un’oggettiva spiegazione per i colpi di fulmine».
In giro ho letto diverse tue dichiarazioni riguardo un’ipotetica fanta-reunion dei Pooh, tra i tuoi colleghi sei apparso il più nostalgico o, per meglio dire, quello più possibilista. Cosa c’è di vero in tutto questo?
«Sai, sono talmente tante le cose belle che abbiamo vissuto insieme che, sicuramente, un po’ di rammarico sul fatto che i Pooh non esistano più c’è, ma non soltanto da parte mia, credo soprattutto per il pubblico. Sulla possibilità di un nuovo coinvolgimento sono solito dire di non avere alcun problema, anzi, ci metterei anche i soldi della benzina e dell’autostrada per arrivarci (ride, ndr). Nell’eventualità porrei solo un’unica condizione, qualsiasi cosa dovessimo realizzare insieme, gran parte del ricavato vorrei che andasse in beneficenza, anche in questo caso dovrebbe esserci dietro una grande motivazione per realizzare una seconda reunion. Non lo dico per piaggeria, ma abbiamo ricevuto una tale gratificazione da parte del pubblico nel corso di questi anni che trovo sia giusto restituire qualcosa alle persone che, di fatto, sono meno fortunate di noi».
A proposito dei Pooh, ho da poco realizzato un articolo in occasione del ventennale dalla pubblicazione di “Un posto felice”, riascoltando le tracce mi ha davvero impressionato il livello a cui, forse, oggi non siamo più abituati, ma sono tutti potenziali singoli, non ci sono pezzi che sovrastano altri e nemmeno brani messi lì giusto per riempire il disco. Questa credo che sia una delle tante caratteristiche degne di nota e altamente rappresentative del vostro stile…
«Sono d’accordo con te e c’è una motivazione in quello che dici, perché noi abbiamo sempre avuto l’intuizione e il desiderio di fare degli album che contenessero buona musica, senza concentrarci su uno o due pezzi in particolare. Tutto ciò che abbiamo realizzato è sempre stata farina del nostro sacco, cercando sempre di mantenere una certa coerenza e il massimo equilibrio, l’ispirazione non cambia da un giorno all’altro, quando si scrivono pezzi come “Chi fermerà la musica”, “Ci penserò domani”, piuttosto che “Uomini soli”, non è che all’improvviso il giorno dopo ti metti a scrivere “La Marianna la va in campagna”, per cui abbiamo sempre cercato di mantenere alto il livello, mai nessun brano è stato messo dentro per riempire un album, anzi forse sono più i pezzi che abbiamo lasciato fuori rispetto a quelli incisi (ride, ndr), proprio perché abbiamo puntato sulla qualità e non sulla quantità. In più, essendo tre autori di musiche e due di testi, ci siamo sempre alternati perché non tutti viviamo contemporaneamente gli stessi periodi di ispirazione, ci sono momenti in cui uno era più in forma dell’altro, perciò ci siamo sempre spalleggiati e alternati, per il bene della nostra musica».
Dopo aver parlato del tuo mondo musicale, non posso non chiederti cosa pensi di quello che c’è intorno: come valuti l’attuale mercato discografico?
«Siamo in un momento di grande stravolgimento della musica, personalmente voglio continuare a pensare in avanti, per cui non butterei via tutto di quello che c’è in giro oggi, ci sono delle cose molto belle realizzate anche da giovani, che ascolto molto volentieri. Non amo un certo tipo di musica credo per indole, forse anche per età perché non sono più un ragazzino, non mi piace la trap e questa maniera di fare canzoni senza linea melodica, sono più legato alla tradizione italiana che ha fatto scuola nel mondo sin dai primi anni del ‘900, da Verdi in poi, compresa la grande canzone napoletana, ma non disdegno tutto il resto. In quanto vicepresidente dell’image ma non disdegna tutto il resto, in quanto vicepresidente dell’IMAIE, (Nuovo Istituto Mutualistico per la tutela dei diritti degli Artisti Interpreti Esecutori, ndr), ho premiato Mahmood ancora prima che vincesse il Festival di Sanremo, ho portato la nostra gratificazione in quanto istituto e in quanto italiano ad un artista che sta facendo delle cose bellissime, anche se si discostano dalle nostre radici sonore. D’altronde, il mondo sta cambiando e bisogna prenderne atto».
Tornando a te, in che direzione andrà la tua musica?
«Onestamente non ne ho idea, ho in mente un po’ di progetti, uno dei quali molto internazionale e strumentale, ma in questo momento è ancora in una fase di elaborazione. Quello che posso dirti, per tornare a quanto detto all’inizio, è che deve sempre esserci una grande motivazione per spingermi a realizzare qualcosa di nuovo, non ho mai fatto le cose giusto per farle e non ho intenzione di cominciare proprio ora. Dopo aver militato per cinquant’anni nei Pooh e lavorato con Vasco Rossi, Gino Paoli, Tommy Emmanuel, Mia Martini e tanti altri, vivo la vita e il mio lavoro in base agli stimoli, se scatta un vibrato nel cuore quella cosa la faccio, altrimenti continuo a suonare a casa mia divertendomi come un bambino (sorride, ndr)».
Per concludere, qual è l’insegnamento più importante che hai appreso in tutti questi anni di attività?
«Il contatto con gli altri, l’educazione. Per fare il musicista è necessario farsi sentire ma anche saper ascoltare, altrimenti si finisce come in quei talk show televisivi in cui su urla tutti assieme e non si arriva a nessuna conclusione. Non credo che quello sia un atteggiamento sano, non solo nella musica ma nella vita in generale, se Dio ci ha fatti con due orecchie e una bocca è per permetterci di ascoltare il doppio di quello che diciamo. Questo è quello che ho imparato in questi anni di attività, grazie soprattutto alla lunga esperienza e militanza in gruppo, ancor prima che musicisti bisogna ricordarsi di essere uomini».
Nico Donvito
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