venerdì 22 Novembre 2024

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Le Vibrazioni: “L’entusiasmo di suonare insieme è la nostra linfa vitale” – INTERVISTA

A tu per tu con la nota band milanese, fuori con il loro nuovo singolo intitolato “L’amore mi fa male

La passione per la musica è una scintilla che ce l’hai o non ce l’hai, nessuno può trasmettertela e, soprattutto, niente può scalfirla, nemmeno il successo. Tra gli artisti che non hanno mai perso l’amore nei confronti di questa nobile forma d’arte troviamo Francesco Sarcina, Marco Castellani, Stefano Verderi e Alessandro Deidda, alias Le Vibrazioni, quattro eterni ragazzi che continuano a divertirsi suonando insieme. “L’amore mi fa male” (qui la nostra recensione) è il titolo del loro nuovo singolo, che arriva dopo i positivi riscontri ottenuti con i precedenti Così sbagliato“, “Amore zen“, “Pensami così e Cambia. Dopo un periodo di pausa durato quattro anni, dal 2013 al 2017, hanno ritrovato l’entusiasmo e la voglia di non fermarsi più.

Ciao ragazzi, partiamo dal vostro ultimo singolo “L’amore mi fa male”, come nasce?

«“L’amore mi fa male” fa parte di un parco di canzoni che avevamo nel cassetto, ci è sembrata quella più adatta al periodo. Il brano nasce dallo spunto di un riff super british e dalla collaborazione con Luca Chiaravalli, produttore con cui abbiamo partecipato a Sanremo lo scorso anno con “Così sbagliato”. Ci siamo divertiti a fare una roba un po’ più ironica e speziarla con odori messicani e sonorità latine. Dopo “Amore zen”, “Pensami così” e “Cambia”, questo è il quarto singolo di seguito che non fa parte di alcun disco fisico, stiamo valutando varie ipotesi, quello che ci chiediamo è se vale la pena, oggi come oggi, fare un album… perché noi potremmo addirittura farne uno doppio, ma bisogna tener conto di quello che c’è intorno, dell’epoca che stiamo vivendo in cui tutto diventa vecchio in un attimo. Stiamo ragionando sul da farsi, per ora siamo concentrati sul portare in giro il più possibile la nostra musica dal vivo».

In un’epoca dove la musica passa anche attraverso le immagini, a cosa si deve la scelta di non realizzare il videoclip?

«Guarda, abbiamo fatto un lyrics video in versione cartoon e, onestamente parlando, ci autoproduciamo, non c’è una grossa casa discografica che ci mette i soldi, in più una major non ci avrebbe di certo permesso di realizzare cinque singoli di seguito. Sinceramente non abbiamo voluto fare un qualcosa giusto per farlo, in più siamo in tournèe e il tempo per realizzare un video come si deve è veramente poco. Ci rendiamo conto che, oggi come oggi, ci sono artisti che puntano tanto sulle immagini e hanno il nostro totale rispetto, come ad esempio Fabio Rovazzi che pensa prima al video e poi alla canzone, ma è il suo modo di fare e lo fa davvero bene. Noi non siamo così, anche se nel corso della nostra carriera abbiamo realizzato videoclip importanti, ma a questo giro non era il caso di farlo sia per tempi che per economie, parliamoci chiaro. In più non è arrivata l’intuizione geniale, l’idea che avevamo era debole, quindi si rischiava di fare qualcosa che non fosse all’altezza della situazione e della canzone».

Vent’anni di carriera, qual è il vostro personale bilancio?

«Partiamo dal presupposto che noi siamo dei grandi privilegiati, quattro amici che dopo vent’anni si divertono ancora a suonare, la musica è l’arte più vicina al divino poiché impalpabile e invisibile, però ti unisce e ti collega agli altri. Nei nostri dischi è tutto suonato veramente, tendiamo sempre a far prevalere la nostra veridicità musicale. Avendo quattro personalità completamente differenti, ognuno di noi porta l’esperienza che deriva dai suoi ascolti e dal proprio vissuto, rispettando la visione degli altri. C’è un incastro naturale, suoniamo insieme da vent’anni, quello che ci accomuna è l’instancabile voglia di chiuderci in sala prove e divertirci con lo stesso spirito degli esordi».

Questi quattro anni di pausa, in che modo hanno inciso nel concreto? Il percepito è che abbiate ritrovato una nuova linfa, quanto è servito fermarsi per poi ritornare?

«L’entusiasmo è alla base di qualsiasi rapporto umano, negli anni è scemato fino ad arrivare ad un certo punto in cui non riuscivamo ad andare avanti. Da quando siamo partiti nel 2003 non ci eravamo fermati un attimo, a volte senza renderci neanche conto, non dando la giusta importanza alle cose. In più eravamo circondati da addetti ai lavori dell’epoca che non lavoravano con la stessa passione che avevamo noi, questa cosa dopo un po’ ti stanca, ti delude e ti opprime. La mancanza di sostegno è andata ad intaccare i nostri umori, ognuno di noi ha elaborato a proprio modo la cosa, il risultato è che per un periodo non ci siamo più trovati, bastava un nulla per farci discutere, soprattutto le cose più inutili, tipo la scelta di una fotografia, il paradosso è che non discutevamo mica sulle cose importanti.

La pausa è servita a tutti e quattro per liberarci, dedicandoci ai nostri progetti solisti, andare all’avanscoperta del mondo per poi scoprire che il nostro tesoro lo avevamo lì a portata di mano, ma era necessario fare questo giro di quattro anni per apprezzarlo. Ricominciamo dando peso e importanza ad ogni cosa che facciamo, l’entusiasmo che abbiamo oggi è più forte di prima, perché è subentrata la consapevolezza di sentirci baciati dalla fortuna, la voglia di fare cose bene e il desiderio di proteggerci l’un l’altro. Eravamo arrivati ad un punto che discutevamo per ogni singola critica che ci veniva fatta dall’esterno, oggi invece ci facciamo una risata, abbiamo imparato a conviverci».

A tal proposito, qual è il vostro rapporto con gli haters?

«All’inizio ci prendeva male, qualunque insulto rispondevi, invece oggi è proprio il contrario, abbiamo imparato a dare importanza alle persone che ci fanno i complimenti, oppure critiche costruttive, ma non offese gratuite. Quando abbiamo iniziato l’opinione era da bar, incontravi uno per strada e ti diceva cosa pensava della nostra musica, poi col tempo la tecnologia ha portato molte persone a nascondersi dietro una tastiera, per cui tutto è diventato possibile, i commenti si basano spesso sul nulla, l’importante è esprimere la propria opinione, anche se non sta né in cielo né in terra.

Addirittura c’è chi riesce a trovare cose negative nei Beatles o nei Queen, come chi guarda una partita e si crede allenatore o guarda un film e si sente regista. La critica deve avere un minimo di spessore, deve essere supportata da una certa argomentazione, per questo gli haters si limitano più ad un insulto libero. Non abbiamo di certo l’arroganza di piacere a tutti, ma rispetto a quando eravamo ragazzi abbiamo sicuramente la maturità di capire a cosa è giusto dare importanza e cosa ignorare».

Che idea vi siete fatti del vostro pubblico? Negli anni sarà sicuramente evoluto, soprattutto dal vivo, durante i concerti passano tutto il tempo a riprendervi col telefonino?

«Il nostro pubblico fortunatamente non è così, si gode il nostro concerto. Noi non siamo un fenomeno televisivo, per cui chi ci segue ha un approccio diverso, anche il ragazzo più giovane magari riprende “Vieni da me”, ma poi non sta tutto il tempo con lo smartphone in mano. Anzi è capitato di dire noi al pubblico di tirare fuori il telefono, perché ci preme che la nostra musica giri, crea hype (ridono, ndr).  Il live è la l’aspetto che curiamo di più del nostro lavoro, in fondo facciamo questo mestiere per suonare dal vivo, per cui a noi interessa che ci sia divulgazione».

Da qui a dieci anni, secondo voi, come sarà l’evoluzione del live? Sicuri che non si andrà verso un percorso di digitalizzazione così come accaduto per il modo di fruire la musica?

«Aggregare una massa di persone in un luogo preciso pensiamo sia un aspetto che non potrà mai perdersi, quella sensazione di condivisione, sentirsi parte di qualcosa, sono tutti elementi da non sottovalutare. Guardare su uno schermo un concerto non è come goderselo dal vivo, questo crediamo che i giovanissimi lo capiscano, anche perché le immagini spesso sono di bassa qualità, per non parlare dall’audio perché ci cantano sopra anche se sono stonati (ridono, ndr). Confidiamo nella nuova generazione, la sensazione che abbiamo è che i giovani abbiamo ripreso dei valori che nel mezzo si sono un po’ persi, a causa nostra molto probabilmente.

Non è detto che questa cosa prosegua e degeneri, è un discorso ciclico, noi ci auguriamo che questa tendenza a vivere online finisca presto, la gente si sta già stancando perché, come tutti i giocattolini, prima o poi ti stufi. L’interesse e la nostra attenzione si stanno abbassando, arriverà il momento che non ci basterà più. L’uso smodato dei social è indubbiamente pericoloso, ma lo spirito di aggregazione e di condivisione tipici dell’essere umano sono decisamente più forti. Noi continueremo a suonare e a metterci tutto il nostro entusiasmo».

Insomma, per concludere, non avete più voglia di fermarvi?

«Assolutamente, appena finiamo il tour ci richiudiamo in studio. Quando non ci vedete in giro è perché siamo al lavoro per intere giornate, paradossalmente quando facciamo concerti e interviste ci rilassiamo. Spesso ci capita che i ragazzini ci chiedano qualche consiglio, perché l’aspetto che affascina di una band è la longevità, soprattutto in questo momento storico, durare non è semplice. Il segreto è suonare tanto, se è necessario anche dalla mattina alla sera, se qualcuno vuole fare il musicista deve entrare in questa ottica».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.