A tu per tu con l’artista romana, in uscita con il suo quindicesimo album in studio “Viva da morire”
La musica di Paola Turci non conosce ostacoli, contrariamente a quanto cantato in concorso all’ultimo Festival di Sanremo. “Viva da morire” è il titolo del suo nuovo progetto discografico, un grido di speranza e di consapevolezza che racconta le molteplici anime della cantautrice, dalla bimba di ieri alla donna di oggi. Prodotto da Luca Chiaravalli e distribuito da Warner Music Italy, l’album comprende dieci tracce inedite composte da alcuni delle più interessanti penne nazionali, tra cui spiccano i nomi di Nek, Federica Abbate, Giulia Anania, Andrea Bonomo, Davide Simonetta, Fabio Ilacqua, Gianluigi Fazio, Edwyn Roberts, Stefano Marletta, Andrea Pugliese, Roofio, Chantal Saroldi, Niccolò Bolchi, Gianluca Florulli e Shade. In occasione del lancio di questo nuovo lavoro, abbiamo raggiunto telefonicamente l’artista, per scoprirne di più sulla realizzazione e scambiare quattro piacevoli chiacchiere.
Ciao Paola, benvenuta su RecensiamoMusica. Partiamo da “Viva da morire”: un disco che mescola passato, presente e futuro, mi verrebbe da definirlo un bilancio, in realtà cosa rappresenta per te?
«Rappresenta un po’ l’inaspettato, perché questo album non era previsto in realtà, non mi sarei mai aspettata di abbracciare nuovamente e così largamente la mia vita, considerando quello che sono stata, quello che sono e quello che potrei essere da oggi in poi. Attraverso l’istinto è venuto fuori un racconto fedele della mia vita, se vogliamo frastagliato e non omogeneo, perché non lo considero un disco concettuale. Le canzoni sono espressione di un deteminato stato d’animo, ma nessun brano contenuto in questo lavoro rappresenta totalmente la mia natura, bensì l’unione di tutte queste storie ne ritrae una coerente panoramica».
Anima di questo progetto è Luca Chiaravalli, con lui ti lega un bella sintonia. Un affetto e una stima che vanno oltre il solito rapporto cantante-produttore?
«Sì ed è stato così sin dall’inizio, Per me è necessario lavorare con persone che sento empaticamente e umanamente vicine. Con Luca ho condiviso storie di vita, sia mie che sue, in particolare un periodo delicato della sua vita. Ci accomuna lo stesso tipo di reazione alle difficoltà e la stessa voglia di essere felici».
Il disco si apre e si chiude con tuo papà, da “L’ultimo ostacolo” a “Piccola”, quasi come se fosse un percorso al contrario, dalla fine all’inizio. Più che la chiusura di un cerchio, possiamo considerarla una retta infinita?
«La retta infinita è un’immagine che mi piace, specie se riferita alla figura paterna e a lui in particolar modo. Una presenza-assenza quando ero una bambina e una presenza forte quando sono diventata più grande, anche adesso che non c’è più fisicamente, pur non volendo, arriva quando non lo chiamo, quando non lo aspetto, c’era sul palco dell’Ariston con me a Sanremo, è una presenza non costante ma molto viva. La scelta di iniziare il disco con “L’ultimo ostacolo” e di finire con “Piccola” la trovo coerente per il tipo di progetto, anche se da un punto di vista temporale può sembrare un percorso capovolto, nella prima canzone parlo del presente, mentre l’altra è una storia passata ma che ancora mi accompagna».
A proposito di Sanremo, con quale spirito hai affrontato questa tua undicesima partecipazione al Festival?
«La mia sfida è stata quella di abbassare al minimo le aspettative, di non entrare troppo in competizione con me stessa. Volevo gareggiare con quella che sono oggi, senza confronti con il passato, nemmeno con la mia partecipazione di due anni fa con “Fatti bella per te”, avevo la necessità di trovare nuovi stimoli e mostrare la Paola di oggi. Ci sono riuscita, ma faticosamente, perché quest’anno il Festival di Sanremo ha avuto parecchi ostacoli, più di quelli cantati nella mia canzone (ride, ndr), non è facile subire pressioni quando non si è al massimo delle proprie forze».
Ospite del disco è Shade, presente ne “Le olimpiadi di tutti i giorni”. Come ti sei trovata a collaborare con lui?
«Benissimo, è un ragazzo che ha sposato alla perfezione la canzone che cantiamo. Per me è stato una scoperta, non lo conoscevo bene, se non attraverso dei brevi incontri, grazie alla nostra comune etichetta discografica ho avuto modo di avvicinarlo, di conoscerlo ed è stato un bello scambio, perché Vito rappresenta un esempio positivo per la nuova generazione, è un ragazzo in gamba che si impegna, che lavora, che studia, è un doppiatore e usa il freestyle in maniera molto intelligente».
Veniamo al tuo nuovo singolo “Viva da morire”, lo hai sottratto dalle mani di J-Ax facendolo tuo. Cosa ti ha colpito di questo pezzo?
«Semplicemente quello che diceva, le esclamazioni e i versi che ho sentito subito miei, infatti quel “questa vita voglio morderla finché non mi mangia” rappresenta esattamente il mio stato d’animo attuale. Sono rimasta colpita da questo linguaggio diretto e passionale, per cui l’ho presa al volo e l’ho voluta a tutti i costi fare mia».
Rispetto a “Il secondo cuore”, dove figuravi in veste di co-autrice di tutte le tracce (eccetto naturalmente la cover della Oxa), in questo album indossi più i panni da interprete, è stato un caso oppure una scelta voluta?
«È stato un po’ un caso, nell’ultimo periodo non avevo scritto molto, mi sono lasciata andare a momenti in cui mi sono anche persa, scottata, dove scrivere non rappresentava il mio primo pensiero. Ho ricevuto tanto materiale da ragazzi e stimati colleghi, in maniera molto semplice ho scelto le canzoni che più mi piacevano e che in qualche modo parlavano al posto mio. Lo definisco un disco inaspettato proprio perché non era programmato, personalmente avrei aspettato un altro po’, invece tutto è arrivato e accaduto in maniera improvvisa ma piacevole».
In tutte le dieci tracce lanci messaggi positivi, che di questi tempi non fa male. Ne “L’arte di ricominciare” parli dell’istante in cui si sta per crollare, come lo si riconosce?
«Bella domanda, da un lato può sembrare anche evidente, perché il momento in cui sta per sfuggirti tutto dalle mani e il pavimento crolla sotto i tuoi piedi, da un altro punto di vista il dolore può toglierti lucidità. Credo che il fondo viene toccato quando si arriva alla conclusione di non poterne uscire, quando non si intravede più alcuna soluzione».
Personalmente, come ne sei uscita?
«Sai, non è stato facile, mi sono anche abbandonata alla tristezza, al dolore, alla paura, all’incertezza. C’è voluto del tempo, quando ho capito che tutte queste sensazioni erano in realtà la mia gabbia ho provato fastidio nel nascondermi, così ho cominciato a riaprirmi e mi sono sentita più leggera».
In conclusione, qual è la lezione più grande che senti di aver appreso in tutti questi anni di musica?
«Sicuramente più di una, la prima che mi viene in mente è la costanza, perché la voce che hai ricevuto in dono e la passione non valgono nulla senza l’impegno. Tutto il resto è importante, ma è necessario arrivare alla consapevolezza che il sacrificio è inevitabile quando si vuole perseguire un obiettivo».
Nico Donvito
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