A quarant’anni dalla prematura scomparsa, l’omaggio all’artista calabrese, istrionico e sopraffino, ultima maschera della canzone d’autore
Il 2 giugno è una data che gli appassionati di musica italiana difficilmente potranno dimenticare. Una giornata che corrisponde alla prematura scomparsa di Rino Gaetano, genio che ha letteralmente stravolto le regole e le liriche del cantautorato. Dotato di un’interessante voce roca e di un’affascinante anima ribelle, nel corso della sua breve carriera si è fatto notare per la propria dissacrante ironia, che ha saputo tradurre in testi profondi e pungenti, a metà tra la denuncia sociale e la semplice quotidianità.
Nato a Crotone il 29 ottobre del 1950, Salvatore Antonio Gaetano si trasferisce con la famiglia a Roma all’età di dieci anni, ma resterà per sempre ancorato alle proprie radici calabresi. Durante l’adolescenza vive per sei anni in un seminario di Narni, in provincia di Terni, dove approfondisce i suoi studi senza mai intraprendere realmente la carriera ecclesiastica, nonostante l’insistenza dei genitori. Tornato nella capitale comincia a coltivare la passione per la musica, esibendosi come bassista nella band dei Krounks. Parallelamente inizia a scrivere le prime canzoni, influenzato da artisti del calibro di Enzo Jannacci, Adriano Celentano e Fabrizio De Andrè. Nel ’69 si avvicina al teatro e comincia a frequentare il Folkstudio, dove conosce Antonello Venditti e Francesco De Gregori.
Diplomatosi in ragioneria, viene spinto dal padre a trovarsi un’occupazione con un reddito stabile, ma rifiuta il posto di lavoro in banca per dedicarsi completamente alla composizione musicale. Il suo primo 45 giri si intitola “I love you Maryanna”, firmato con lo pseudonimo di Kammamuri’s perché si autoconsiderava un autore più che un cantante. Superata la timidezza, nel ’74 esce il suo primo album “Ingresso libero” dal quale emergono “Tu forse non essenzialmente tu”, “Supponiamo un amore” e “Ad esempio a me piace il sud”, quest’ultima già incisa e presentata a Canzonissima da Nicola Di Bari.
Il disco non ottiene il successo sperato. Le vendite non soddisfano gli addetti ai lavori. L’anno successivo viene così lanciato il singolo “Ma il cielo è sempre più blu”, uno dei suoi brani più celebri che gli consente di accrescere la propria popolarità. Il ’76 è l’anno della consacrazione e del secondo album “Mio fratello è figlio unico”, contenente tra le altre “Berta filava”, “Sfiorivano le viole” e “Cogli la mia rosa d’amore”. Visti i positivi riscontri viene pubblicato a distanza di pochi mesi il terzo lavoro in studio, intitolato “Aida”, impreziosito dalle ballate “Escluso il cane” e “Sei ottavi”, un disco d’amore decisamente romantico e sognante.
Nel ’78 partecipa al Festival di Sanremo su imposizione della propria casa discografica con “Gianna”, canzone che non amava particolarmente e che, per uno strano scherzo del destino, diventerà per il pubblico una delle più conosciute e apprezzate del suo repertorio. Quel suo abbigliamento, quel modo anticonvezionale di stare sul palco e di suonare con disimpegno l’ukulele, folgorarono per anni nell’immaginario collettivo degli italiani, anche se si posiziona soltanto al terzo posto della classifica della kermesse, alle spalle di Anna Oxa e dei trionfanti Matia Bazar. Il successo post sanremese del pezzo oscura l’impegno e le opere scritte in precedenza, al punto da portarlo a rinnegare la sua partecipazione e a dichiarare di aver lottato invano per portare in gara “Nuntereggae più”, canzone rilasciata l’estate seguente che ha dato il titolo al suo quarto album. A casa del lungo elenco di nomi e cognomi pronunciati, il pezzo subisce diverse censure e il peso del successo di “Gianna” comincia a diventare per lui ingestibile.
Spronato dai discografici a scrivere nuovi brani, nonostante un periodo di crisi creativa, nel ’79 esce il disco “Resta vile maschio dove vai?”, trascinato dall’omonima traccia scritta da Mogol, l’unica del suo repertorio a non avere il suo nome come autore del testo. Nel 1980 incide il suo sesto e ultimo album “E io ci sto”, decisamente più a fuoco del precedente. Il 2 giugno dell’anno seguente il suo genio si spegne prematuramente, all’età di trent’anni, a causa di un incidente stradale, muore dopo tre ore di coma, diverse strutture ospedaliere romane respingeranno il suo ricovero per mancanza di posti disponibili, proprio come aveva fatalmente profetizzato ne “La ballata di Renzo”, una delle sue primissime canzoni che racconta una storia analoga alla sua dipartita.
Per molti anni il suo repertorio è stato snobbato e il suo ricordo accantonato, per poi essere recuperati con l’arrivo del nuovo millennio, come lui stesso aveva auspicato durante un concerto tenutosi nel ’79: «C’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio – ha raccontato al pubblico – io non li temo, non ci riusciranno. Sento che in futuro le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni e che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera, capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale».
A quarant’anni dalla sua scomparsa, Rino Gaetano resta uno dei baluardi della nostra canzone d’autore, cinico e spregiudicato come solo i poeti e i giullari sanno essere, con la capacità innata di sdrammatizzare senza mai risultare superficiale. Cantava col cuore, senza puntare minimamente sulla tecnica, le sue imprecisioni lo hanno consacrato nell’Olimpo dei grandi, perché incarna il prototipo imperfetto dell’essere umano, con i mille pregi e le innumerevoli contraddizioni.
Spesso chi parla o scrive di lui tralascia dettagli rilevanti, si limita a definirlo un menestrello che si prendeva gioco del potere attraverso la sua musica, sminuendone estro e sensibilità artistica. Chi non conosce la sua storia, la sua infanzia, il suo trascorso, si limita a ricordarlo fischiettando il ritornello di “Gianna”, ma Rino era molto di più: un cielo infinito di parole blu cobalto.
Nico Donvito
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