“Sanremo Story”, luci e ombre degli anni ‘70

Sanremo Story anni '70

Sanremo Story: la rubrica che ripercorre le tappe fondamentali del Festival della canzone italiana, attraverso aneddoti e approfondimenti. A cura di Nico Donvito

Per molti il Festival di Sanremo è quell’evento televisivo che catalizza davanti allo schermo per una settimana all’anno, uno spettacolo colorato, uno psicodramma tragicomico collettivo, un carrozzone fiorito stracolmo di cantanti, presentatori e vallette. Negli anni, ne abbiamo lette e sentite parecchie di definizioni, tutte profondamente vere, ma nessuna realmente corretta. Sanremo Story anni ‘70

Per dare una risposta allo slogan “Perché Sanremo è Sanremo”, è necessario riscoprire la storia di questo grande contenitore che nel tempo si è evoluto, ma senza perdere il proprio spirito. La verità è che il Festival è un vero e proprio fenomeno di costume, la favola musicale più bella di sempre, lo specchio canterino del nostro Paese. Con la sua liturgia, la kermesse non è mai riuscita a mettere d’accordo ammiratori e detrattori, forse in questo alberga la vera fonte del suo duraturo consenso. La rubrica “Sanremo Story” si pone l’obiettivo di raccontare tutto questo e molto altro ancora.

“Sanremo Story”, luci e ombre degli anni ‘70

Con l’intento di accontentare su larga scala i gusti degli ascoltatori, il Festival aveva contribuito al processo di frammentazione del pubblico nei due decenni antecedenti. Il mercato discografico era cambiato e i fruitori di musica si erano evoluti, di conseguenza non esisteva più un’unica Italia ipnotizzata davanti all’apparecchio radiofonico o al teleschermo.

Cavalcare le mode seguendo le tendenze del momento era una pratica che premiava nell’immediato, ma col tempo aveva gradualmente sottratto identità alla manifestazione, che finì per perdere il proprio carattere distintivo. Per tutta questa serie di ragioni, Sanremo stava per diventare una matassa difficile da sbrogliare. L’edizione del 1970 non fu altro che una lineare rappresentazione di quanto stava accadendo nel nostro Paese. Adriano Celentano e Claudia Mori si aggiudicarono il titolo con “Chi non lavora non fa l’amore”, sulla scia degli scioperi operai dell’autunno caldo. Una canzone attuale e provocatoria che non passò alla storia, ma che in quel momento fece la storia.

Il clima che si respirava era ben lontano da quello degli inizi del decennio precedente, dall’Eden del boom economico si passò rapidamente al limbo delle contestazioni. Vennero approvate alcune norme importanti per la nostra storia legislativa, a cominciare dallo Statuto dei lavoratori, passando per la legge che introdusse per la prima volta il divorzio. In qualche modo, il brano portato in scena dalla coppia più bella del mondo, aveva fotografato meglio di una reflex quel preciso e delicato momento di transizione.

Orfana della presenza dei cantanti stranieri, la rassegna puntò tutto sulle eccellenze tricolore e su brani di stampo melodico. Si affermarono così “La prima cosa bella” dei Ricchi e Poveri e Nicola Di Bari, “La spada nel cuore” di Patty Pravo e Little Tony, “Eternità” di Ornella Vanoni e I Camaleonti, “Tipitipitì” di Orietta Berti e Mario Tessuno, “Re di cuori” di Caterina Caselli e Nino Ferrer, “L’arca di Noè” di Iva Zanicchi e Sergio Endrigo.

Dopo la vittoria rivoluzionaria di una canzone impegnata, nel 1971 si ritornò alla consuetudine sentimentale con “Il cuore è uno zingaro” di Nicola Di Bari, che trionfò in abbinamento con la giovanissima Nada. Al secondo posto si riconfermarono i Ricchi e Poveri, questa volta accompagnati dal portoricano José Feliciano, con la celebre “Che sarà”, composta da Jimmy Fontana. Sul gradino più basso del podio si impose “4 marzo 1943”, un pezzo tanto innovativo quanto rivoluzionario, tra i più conosciuti di Lucio Dalla, proposto in gara con gli Equipe 84. Un’annata meritevole di menzione anche per i debutti dei Nomadi e della Formula 3, oltre che per l’ultima partecipazione in gara di Celentano con “Sotto le lenzuola”.

Seppur i risultati dell’edizione precedente non furono per nulla deludenti, a Sanremo 1972 si decise di rimescolare le carte e cambiare di nuovo tutto. Così, dopo circa un ventennio, venne abolito il meccanismo della doppia esecuzione. Si tornò alla formula dell’interpretazione singola e alla conduzione venne richiamato Mike Bongiorno, dopo alcuni anni di assenza, affiancato dall’attrice Sylva Koscina e dal comico Paolo Villaggio.

Ad aggiudicarsi il titolo fu, per il secondo anno consecutivo, Nicola di Bari con “I giorni dell’arcobaleno”, un brano che non superò la spietata prova del tempo. Ad imporsi nelle classifiche e nella memoria collettiva degli italiani, furono invece: “Piazza grande” di Lucio Dalla, “Montagne verdi” interpretata dall’esordiente Marcella Bella, “Gira l’amore (caro bebè)” di Gigliola Cinquetti, “Mediterraneo” di Milva, “Il re di denari” di Nada e “Jesahel” dei Delirium, questi ultimi capeggiati da Ivano Fossati, alla sua unica partecipazione festivaliera come interprete.

Dopo anni di corteggiamenti serrati, prese parte alla competizione anche Gianni Morandi che, seppur giovanissimo, vantava già un repertorio di tutto rispetto e vendite da capogiro. “Vado a lavorare” non era di certo una delle sue opere migliori, infatti non riuscì ad andare oltre la quarta posizione. Non andò bene nemmeno a Domenico Modugno, che arrivò ultimo con la sua “Un calcio alla città”, da alcuni accusata di incentivare il fenomeno dell’assenteismo. In realtà si trattava di una scanzonata riflessione sulla storia di un impiegato che, per un giorno, decideva di disertare la propria scrivania per tornare a respirare a pieni polmoni l’aria pulita di campagna, al grido di «amore mio vieni anche tu, il capoufficio lasciamolo su».

Sulla stessa scia progressista si caratterizzò anche l’annata 1973. L’organizzazione della kermesse passò nelle mani del nuovo direttore artistico Vittorio Salvetti, già patron del Festivalbar. A mettere d’accordo le giurie fu Peppino Di Capri, che si aggiudicò la vetta della classifica finale con “Un grande amore e niente più”. La commissione non ritenne idonee alcune candidature di lusso: Ivano Fossati con “Vento caldo”, Lucio Dalla con “Un’auto targata TO” e un giovanissimo Antonello Venditti, cantautore che non debuttò mai direttamente in gara, se non nel ’92 come autore, insieme a Michele Zarrillo, di “Strade di Roma”.

A causa di queste eccellenti esclusioni, Adriano Celentano disertò la kermesse a pochi giorni dalla partenza ufficiale, dopo essere stato reclutato con il brano “L’ultima chance”. Il cantautore milanese espresse le sue motivazioni nel seguente sarcastico telegramma: «Causa sopravvenuta piccola gastrite, sono impossibilitato partecipare XXIII Festival. Medico ha consigliato cinque giorni assoluto riposo, nonostante mia preghiera di darmene solo tre stop. Conoscendo mia sensibilità credo che scintilla di questa infiammazione sia scoccata nel momento in cui commissione ha bocciato notori personaggi senza tenere conto del loro prestigioso apporto sinora dato alla canzone italiana stop. Circa nuove leve non credo proprio che commissione abbia fatto loro interesse poiché solo affiancati dai grossi calibri anche giovani possono avere meritato risalto stop. Auguro ugualmente questo Festival grande successo anche se purtroppo senza mia presenza lo vedo alquanto pallido stop». Uno sfottò in piena regola che, seppur geniale e in qualche modo motivato, si rivelò a tutti gli effetti un ironico sgarbo.

Attirarono l’attenzione del pubblico: “Tu nella mia vita” della coppia Wess e Dori Grezzi, “Da troppo tempo” di Milva, “Amore mio” di Umberto Balsamo, “Vado via” di Drupi e “L’uomo che si gioca il cielo a dadi” di Roberto Vecchioni, alla prima delle sue due partecipazioni sanremesi. Per l’unica volta in ventitré anni di storia, nessun motivo proveniente dalla manifestazione arrivò in cima alla hit parade. In termini popolari, si trattò comunque di una delle ultime edizioni del decennio a suscitare un sentimento di interesse.

Di lì a poco bisognò fare i conti con un’amara realtà: il Festival non era più lo spettacolo preferito dal pubblico italiano, la mancanza di belle canzoni non fece altro che alimentare il disinteresse anche da parte della stessa Rai, che per diverso tempo trasmise a malapena la serata finale, al punto che nel 1973 la kermesse andò in onda integralmente solo su TeleBiella e TeleNapoli. Il mondo stava cambiando, i benefici del miracolo economico lasciarono gradualmente spazio al consumismo, situazione che si riflesse anche nel modo di fruire la musica. Non a caso, proprio nello stesso periodo chiusero i battenti altre due storiche manifestazioni canoro-televisive: Canzonissima e il Cantagiro. Considerata da molti una rassegna ormai desueta e superata, anche Sanremo cominciava a rischiare parecchio, proprio mentre nel nostro Paese si respirava un’aria pesante, con il terrorismo rosso e nero che insanguinava le strade delle città nei terribili “anni di piombo”.

La ventiquattresima edizione sanremese determinò un ulteriore passo verso la crisi. Unica nota positiva fu laconduzione affidata nelle mani dell’indimenticato Corrado, accompagnato dall’annunciatrice Gabriella Farinon. Da segnalare l’isolata partecipazione del futuro direttore artistico Claudio Baglioni, in veste di autore del brano “A modo mio”, portato in scena da Gianni Nazzaro.

Per porre rimedio alle numerose polemiche e per incentivare la presenza dei big, per la prima volta il cast venne suddiviso in due gruppi: quattordici veterani e quattordici nuove leve. I primi finirono direttamene in finale, mentre tra le matricole superarono il turno soltanto in quattro. Una soluzione piuttosto democratica, arrivata forse un po’ in ritardo. Come sistema di votazione si optò per uno strambo e artificioso meccanismo, con gruppi d’ascolto dislocati in varie sedi sparse per tutto il territorio nazionale, con conseguenti e paradossali difficoltà di collegamento. Una formula complicatissima, che non fu mai più replicata.

Trionfò Iva Zanicchi con “Ciao cara come stai?”, scritta da Cristiano Malgioglio. Con questo titolo, l’Aquila di Ligonchio diventò la cantante donna più titolata del Festival, collezionando la terza medaglia d’oro in bacheca. Si classificò secondo Domenico Modugno, alla sua ultima partecipazione con “Questa è la mia vita”, considerano da molti il suo testamento sanremese. In realtà, nessuna canzone riuscì a superare in definitiva la prova del tempo. Un buon riscontro lo ottennero nell’immediato “In controluce” di Al Bano e “Fiume grande” di Franco Simone, che si impose soprattutto a livello internazionale nella versione spagnola intitolata Rio grande. Chi pensava che non si sarebbe potuto fare peggio, però, sbagliava di grosso.

Possiamo considerare l’edizione del 1975 come l’annus horribilis del Festival, poiché totalmente privo di cantanti professionisti. La rassegna, da molti ribattezzata “sagra degli sconosciuti”, fu organizzata per la prima e unica volta direttamente dal Comune di Sanremo. Il risultato fu deludente sotto ogni punto di vista: le case discografichedisertarono l’evento lasciando la scena a cantanti senza un minimo di esperienza, che i rotocalchi dell’epoca definirono come un gruppo di dilettanti allo sbaraglio. Oltre alla mancata presenza di veri big, il grande problema fu costituito dai motivi in concorso, qualitativamente non all’altezza della situazione e di una rassegna canora che, proprio quell’anno, festeggiava le nozze d’argento con la discografia italiana. Ad aggiudicarsi il primo posto fu “Ragazza del sud”, scritta e interpretata dalla debuttante Rosangela Scalabrino, in arte Gilda. La canzone venne presa di mira dalla stampa poiché ritenuta il manifesto retorico e retrogrado del concetto di donna tradizionale, una visione per certi versi reazionaria, in netto contrasto con le ideologie del movimento femminista e con il moderno risveglio di coscienze in atto in quel preciso momento storico. A tutt’altra corrente di pensiero aderiva Paola Musiani con “Se nasco un’altra volta”, brano che sottolineava gli svantaggi della donna ritenuta all’epoca ancora un oggetto. Insomma, seppur questa sia da considerare un’edizione in parte da cancellare, qualcosa di salvabile in fin dei conti c’era.

Nel 1976 avvenne il primo vero tentativo di rilancio del Festival, il patron Vittorio Salvetti decise di eliminare l’orchestra e le esibizioni dal vivo in favore del playback, introducendo per la prima volta la figura degli ospiti fuori concorso, sia italiani che internazionali. Una decisione con i suoi pro e i suoi contro, che portò ad una lenta e graduale mutazione genetica: da rassegna canora a spettacolo televisivo.

Dopo la rinuncia al fulmicotone di Domenico Modugno, la conduzione della kermesse venne affidata allo speakerGiancarlo Guardabassi, che presentò le serate dalla sua postazione radiofonica senza mai salire sul palco. A spuntarla fu nuovamente Peppino Di Capri, dominatore della scena per la seconda volta con “Non lo faccio più”. Dopo ventisei anni in cui a Sanremo si era parlato di sentimenti casti e candidi in tutte le possibili stucchevoli declinazioni, finalmente in Riviera arrivò l’amore torbido e carnale: così il Festival scoprì il sesso.

La canzone vincitrice, infatti, raccontava le dinamiche di uno spogliarello. Il buon Peppino era decisamente in bella compagnia, visto e considerato che la maggior parte dei pezzi, ben diciassette motivi su trenta, affrontavano tematiche decisamente più libertine che puritane. Che dire di Sandro Giacobbe e della sua “Gli occhi di tua madre”? Brano che raccontava la storia di lui, fidanzato in casa, che si innamorava della mamma di lei. Ebbene sì, i tempi erano proprio cambiati, come ben indicato dalla chiacchierata esclusione di Claudio Villa, che aveva avanzato la sua candidatura con “Serenata al mio padrone”, un samba sulle lotte operaie e sulle proteste sociali in atto in quegli anni. Proprio quando il Reuccio si mostrò in linea con i tempi, paradossalmente, la sua proposta non era stata ritenuta idonea dall’organizzazione e non fu ammessa a quell’edizione, poi ribattezzata la più sexy della storia. Questa volta, a Sanremo l’amore non aveva fatto rima soltanto con cuore.

Il processo di rinnovamento passò anche per l’annata del 1977, la prima ad essere trasmessa a colori e non più in bianco e nero. Tra le altre novità, la manifestazione traslocò di circa 600 metri, dal Casinò al mitico Teatro Ariston, location che doveva essere inizialmente solo temporanea. Alla conduzione tornò per l’ottava volta Mike Bongiorno, affiancato dall’annunciatrice Maria Giovanna Elmi. In linea di massima, fu il Festival dei complessi, con ben tre gruppi musicali che si aggiudicarono l’intero podio: terzi I Santo California con “Monica”, secondi i Collage con “Tu mi rubi l’anima” e primi gli Homo Sapiens con “Bella da morire”. A grandi linee, il Festival cominciò ad intravedere una piccola luce in fondo al tunnel.

Le cose sembravano andare nel verso giusto, per certi aspetti bastava ripetere la formula dell’anno precedente, invece nel 1978 tutto venne messo in discussione per l’ennesima volta. Le proposte vennero suddivise in tre categorie: cantautori, interpreti e complessi. Per evitare che tra le prime posizioni si piazzassero di nuovo esclusivamente le band, si decise di far arrivare in finale soltanto un esponente per ciascun gruppo di assegnazione. Così al terzo posto si distinse la celebre “Gianna” di Rino Gaetano, alla sua unica presenza in Riviera, al secondo si piazzò “Un’emozione da poco” della sedicenne Anna Oxa, all’epoca prodotta da Ivano Fossati, e in vetta si aggiudicò la palma d’oro “…e dirsi ciao” dei Matia Bazar. Dopo qualche anno trascorso in sordina, qualcosa cominciava a rimettersi in moto.

Sul più bello, però, si registrò l’ennesima battuta di arresto. Quella del 1979 fu un’altra edizione sottotono, con un livello di canzoni per nulla memorabile. L’insana scelta di rinunciare ancora una volta ai big portò alla vittoria del poco conosciuto Mino Vergnaghi e della sua poco ricordata “Amare”. Anche in questo caso i brani non si dimostrarono all’altezza della situazione e di un palco così prestigioso. L’offerta musicale fu nettamente inferiore a quella dell’anno precedente, a prendersi la scena furono i cantanti-cabarettisti con le loro stravaganti e goliardiche proposte: Enrico Beruschi con “Sarà un fiore”, Marinella con “Autunno cadono le pagine gialle”, Franco Fanigliulo con “A me mi piace vivere alla grande” e i Pandemonium con “Tu fai schifo sempre”. Insomma, un Festival all’insegna del più completo disimpegno.

L’opinione pubblica si spaccò letteralmente a metà, tra quelli che sostenevano per una chiusura definitiva dellamanifestazione e coloro i quali avrebbero fatto di tutto per salvarla. Un declino suggellato dall’incremento dell’importazione di canzoni straniere, sempre più presenti nelle classifiche del nostro Paese. Si sprecarono critiche e giudizi a riguardo, si rincorsero opinioni e si pronunciarono anche pareri autorevoli, ma le idee più chiare le ebbe senza ombra di dubbio Rino Gaetano. Con il suo costume di scena, il cilindro, il frac e l’ukulele, sbeffeggiò l’opinione borghese del Festival, dandone una connotazione estremamente popolare. Un concetto riassunto nell’intervista concessa all’indomani della sua partecipazione a Il Messaggero: «Sanremo è sempre uguale, perché non c’è la buona intenzione di cambiarlo per davvero. Gli artisti potrebbero essere interessati a un rinnovamento e, infatti, le poche volte che hanno avuto spazio sono riusciti a fare qualcosa. Il Festival resta comunque una passerella e, come tutte le vetrine, ti offre pochi minuti per proporre un discorso che normalmente faresti in due ore di spettacolo. Così ti ritrovi costretto ad escogitare qualcosa. Per quanto mi riguarda, ho scelto la strada del paradosso, un po’ alla Carmelo Bene. Comunque sia, Sanremo resta tuttora una manifestazione insuperata». Severo, ma giusto…

Scritto da Nico Donvito
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