Quando si vuol far passare per nuovo ciò che non lo è oscurando primati altrui
Ci sono stati gli anni del cantautorato seguiti da quelli delle pesanti e strappalacrime ballate d’amore dagli incisi ariosi derivati da un’infinita crescita melodica, poi è venuto l’estenuante electro-pop che con sintetizzatori e tastiere ha (e continua a farlo) dettato legge nella musica italiana da classifica ma ora è il tempo del cosiddetto “urban-pop”.
Che cosa sia questo “nuovo” genere musicale è facile dirlo ma, allo stesso tempo, anche estremamente difficile da cogliere in purezza. Come ogni cosa riguardi la musica, d’altronde. Fatto evidente è, però, la tendenza, tutta nuova, che parte della discografia pop italiana sta facendo propria negli ultimi tempi. Non si parla che di fenomeno indie che viene alla ribalta (ma su questo ci tornerò volentieri in un’altra occasione) e di nuovi e rivoluzionari suoni che stanno investendo il pop nostrano contagiandolo e rendendolo più multietnico che mai.
Ma davvero crediamo che queste nuove sonorità possano definirsi davvero innovative, rivoluzionarie e totalmente inedite? Davvero possiamo essere così stolti e credere che siano stati Tommaso Paradiso e i suoi Thegiornalisti o il magico duo di Takagi e Ketra ad inventare un ciclone africano capace di contagiare, da qui ai prossimi mesi, le tendenze sonore del nostro mondo pop-melodico? Davvero possiamo credere che gli utlimi singoli di Nina Zilli e Francesca Michielin rappresentino una svolta nelle sonorità popolari? Spero per noi di no.
L’urban pop, che si sta affacciando sulle nostre radio presentandosi come “il futuro che viene”, altro non è che una riproposizione (peraltro parecchio mal riuscita) di un qualcosa che esiste da tempo fuori dall’Italia e che, presto, sarà globalmente superato in favore di nuove tendenze (anche quelle non saranno poi così nuove eh). Ma, a ben guardare, anche in Italia qualcuno ha saputo anticipare, ancora una volta, i tempi proponendo nei propri arrangiamenti quei sentori etnici, vivi, umani ed industriali allo stesso tempo che caratterizzano le sonorità urban. Questa artista è stata Anna Oxa, magnetica regina della voce e della sperimentazione autentica, che, già nel 2006, portava al Festival di Sanremo un brano come “Processo a me stessa”.
Una canzone quella capace di coniugare un’impegnata orchestrazione di violini e archi vari con i suoni etnici della parte ritmica e di creare un teso equilibrio emozionale sfruttando sonorità che oggi i saccenti critici e classificatori musicali definirebbero “urban” o “world”. Ma l’artista Anna Oxa non ha soltanto anticipato i tempi di 10 anni, ha perseguito questa spinta alla ricerca sonora anche nei suoi lavori successivi portando alla massima realizzazione queste tendenze.
“Proxima”, album del 2010, altro non era che il preludio del gioiellino musicale (ancora privo di una pubblicazione ufficiale) de “L’America non c’è”, brano scritto dalla stessa Oxa in collaborazione con Diego Palazzo e Piergiorgio Pardo, e che rappresenta l’unico vero capostipite della ricerca vocale e sonora definibile “urban”. Il testo così intrinsecamente spiritual-filosofico si coniuga ad un arrangiamento sonoro tutto incentrato sulla parte ritmica dell’orchestrazione con strumentalità a pelle che rievocano quei suoni tipici dell’esogenesi vitale ricercata con profondità anche dalla vocalità, sempre capace di nuove sfumature.
Ora che qualcuno ha capito le potenzialità di questi “nuovi” confini la “corsa all’oro” è già iniziata e presto verremmo sommersi da una nuova putrida proposta musicale che indegnamente esalterà il primato di questo o quello artista nelle sonorità urban oscurando mediaticamente, ancora una volta, i reali progenitori di stili derivati da un percorso di più di 10 anni di ricerche. La verità è una sola: siete arrivati tardi anche questa volta, mentre voi sarete impegnati a copiare (malamente e senza alcuna originalità o ricerca interiore) ciò che ora “va di moda” qualcun altro sarà impegnato a creare e a ricercare davvero. L’urban pop italiano non è una vostra creazione, per quanto possiate spacciarlo come tale nei vostro comunicati stampa o nelle presentazioni ufficiali dense di vuoti auto-elogi.
Ilario Luisetto
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